Ma quale “Via della seta”, conte Gentiloni?

La verità, dopo il viaggio di Paolo Gentiloni in Cina, esplode in tutta la sua piccineria che non si discosta per nulla da quanto si verificò con un altro Premier, Mario Monti, anche lui in visita nel Paese degli abitanti con gli occhi a mandorla. Costui ai rappresentanti di un Paese come la Cina, che ragiona sempre in grande, ebbe l’ardire di rimproverarli per non aver approfittato dell’occasione di speculare sui titoli finanziari del Belpaese.

 “Vi avevo informati che sarebbe stata una buona occasione”, disse sostanzialmente il primo dei quattro premier imposti da Giorgio Napolitano agli italiani, “ma avete sorvolato sulla possibilità di investire sul debito del mio Paese. Avreste fatto certamente un buon affare”. Monti, il tecnico che doveva salvare l’Italia, lasciò di stucco i suoi interlocutori che magari avrebbero preferito parlare del Ponte sullo Stretto e dell’Alta Velocità tra la Sicilia e la Campania avendo fatto filtrare, nei mesi precedenti, che erano più che disposti a finanziarli direttamente ed erano disponibili a recuperare il suddetto finanziamento in circa 30 anni.

Le cose si svilupparono rapidamente e andarono in tutt’altra direzione. I cinesi senza farsi fuorviare neanche dal falso annuncio di Renzi che dichiarava “… certo che il Ponte si farà, ma dopo che saranno fatti…” e via con un lungo elenco di opere da far precedere la realizzazione del Ponte Mediterraneo, elenco che avrebbe fatto impallidire il più focoso dei benaltristi d’Italia. E i cinesi capirono che non c’era niente da fare con gli italiani e continuarono ad andare per la loro strada.

Anche il conte Gentiloni, col supporto del renziano Graziano Delrio, ha fornito ai cinesi la riconferma che l’Italia pur avendo cambiato musicanti manteneva la stessa stonata musica. Solo sorrisi e strette di mano ma senza ciccia. Gli italiani, infatti, continuavano a non capire che la loro posizione geografica sarebbe una grande fortuna per gli scambi merceologici via mare. E questa loro cecità aveva spinto i cinesi a comprarsi, per 35 anni, il porto del Pireo per utilizzare, anche da quella postazione, l’accesso ai mercati europei se non dovesse decollare la straordinaria ferrovia di oltre 11mila chilometri tra la Cina e Duisburg (Germania).

Gentiloni, però, pur di dimostrare che il viaggio era stato un successo per l’Italia, ha enfatizzato l’impegno di Pechino a servirsi anche dei porti di Genova e Trieste, ai quali ha aggiunto di suo anche Venezia, con un incremento della movimentazione di container, dimenticando però che detto incremento l’Italia lo potrebbe realizzare per tutti, e sottolineo tutti, i suoi porti ripensando le scelte finora assunte con la liquidazione del Ponte sullo Stretto, anello fondamentale del trasporto container, scelte che si sono rivelate suicide non solo per il Sud ma per l’intera economia del Paese.

E questo quando ormai è risaputo che l’attuale traffico di container nel Mare Nostrum supera la soglia di 5 milioni al mese e tende ad arrivare, già nel 2018, alla complessiva cifra di oltre 70 milioni all’anno. Fa ridere, quindi, accontentarsi di alcune centinaia di migliaia di container riservati a Genova, Venezia e Trieste e sbandierarli come una grande conquista. Ed è pure risaputo che gli altri porti nordeuropei hanno annullato le consistenti perdite del periodo di crisi 2008-2009, già a partire dal 2011, e malgrado qualche difficoltà successiva complessivamente hanno continuato a crescere. Quelli italiani, e non solo quelli di transhipment, ma quelli dell’intero sistema portuale italiano, dal 2007 ad oggi perdono colpi sia rispetto al Nord Europa che rispetto alla portualità mediterranea, europea o africana che sia.

Con le briciole non decolla la nostra economia che al massimo vivacchia, com’è stato finora, tra gli 0 virgola, in più o in meno poco importa. L’Italia, con i “quattro moschettieri” è praticamente alla frutta.

Aggiornato il 26 maggio 2017 alle ore 14:46