Voucher: conseguenze  del Governo in ritirata

La totale abolizione dei voucher, richiesta dal primo dei due quesiti referendari promossi dalla Cgil, produrrà conseguenze negative per il Governo (e per il Partito Democratico), ben al di là del merito specifico.

Il primo effetto sarà quello di allargare un po’ il lavoro nero, ma ciò non sembra turbare molto i sonni di coloro che dichiarano di combatterlo ad ogni piè sospinto. Poi vengono le conseguenze politiche. Si offre lo spaccato di un Governo che, nonostante le dichiarazioni del premier Paolo Gentiloni, ha fatto proprio il motto di Giulio Andreotti, “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Il Governo si è arreso prima di combattere buttando nel cestino tutti i (validi) argomenti utilizzati da chi, anche nel Pd, sosteneva una riforma del voucher (che rappresenta lo 0,3 per cento del totale delle ore lavorate) per eliminarne gli elementi di maggiore criticità. Ad onor del vero Gentiloni è andato molto al di là della debole giustificazione di non voler dividere il Paese. Affermando che i voucher sono “la risposta sbagliata a un’esigenza giusta”, il primo ministro ha scaricato nello stesso tempo buona parte del Pd, gli alleati di governo, la Cisl, La Uil e tutte le organizzazioni imprenditoriali, facendo così propria la linea della Cgil.

Susanna Camusso era stata esplicita affermando, pochi giorni fa, che “sul voucher non c’è alcun abuso, chi lo racconta dice il falso. Le aziende che utilizzano i voucher lo fanno in maniera legale. Se fossimo davanti a un abuso avremmo chiesto la penalizzazione dei comportamenti illeciti. Occorre abolire i voucher in quanto tali, non combatterne il cattivo uso che ne viene fatto”.

Si potrà dire che la Cgil è ancora fortemente condizionata da retaggi ideologici e da uno spiccato antipragmatismo che le impedisce di praticare politiche riformiste, non che manchi di chiarezza. Gentiloni annuncia anche una nuova proposta per il lavoro saltuario e occasionale da discutere con sindacati e imprese, sia ipotizzando un ampliamento dell’attuale contratto di lavoro “a chiamata”, sia richiamando l’esperienza tedesca dei “piccoli lavori”, i “mini jobs” la cui diffusione in Germania (parliamo di percentuali a due cifre, non da prefisso telefonico come per i nostri voucher) è davvero molto rilevante e potrebbe far emergere, se applicata nel nostro Paese, un nuovo assetto contrattuale non privo di nuove criticità.

Il secondo quesito referendario, che mira ad escludere la derogabilità della responsabilità solidale degli appalti tra committente, appaltatori e subappaltatori, supera i confini del grottesco. In pratica la Cgil ha raccolto milioni di firme per privare gli stessi sindacati del diritto, loro attribuito dalla legge, di contrattare a livello nazionale forme di responsabilità solidale ritenute più funzionali a favorire gli investimenti mantenendo sufficienti garanzie per i lavoratori. Il sindacato non si fida di se stesso!

Nel Pd la “sindrome da referendum” è evidente e fortissima, aggravata dalla pressione degli “scissionisti” e dalla febbre delle primarie. Ne emerge l’immagine di un Governo debole, facilmente condizionabile da gruppi politici o da centri di interesse organizzati e potenzialmente in grado di influire sulla pubblica opinione. Ma sarebbe stato impensabile al tempo del referendum sulla scala mobile del febbraio 1984 che Bettino Craxi facesse propria la posizione del Pci e della corrente comunista della Cgil, ignorando la Cisl, la Uil e le altre parti sociali, come è avvenuto oggi. La vittoria della Cgil è fuor di dubbio, tanto più nel momento torna ad essere “azionista di riferimento del Pd, ma questo indebolirà i rapporti unitari, diffondendo nel movimento sindacale sfiducia e diffidenza reciproca che si ripercuoteranno nel rapporto con il Governo. Con quale autorevolezza si affronteranno i tassisti, gli ambulanti, la vicenda Alitalia, senza dimenticare il contenzioso sui conti pubblici aperto con l’Unione europea?

Se la “spinta propulsiva” nel Pd si sia esaurita o se invece siamo di fronte alla scelta tattica di Matteo Renzi (o di Gentiloni?) di fare oggi un passo indietro per farne domani due avanti, lo sapremo nelle prossime settimane.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:30