La risposta non è il protezionismo

L’editoriale del direttore Diaconale di giovedì 26 gennaio invita ad una riflessione dubbiosa sul modo migliore per combattere la crisi economica che attanaglia Europa e Stati Uniti. Diaconale si interroga sul protezionismo, sulle sue cause ed implicazioni sociali. E chiude il suo intervento con il punto di domanda su cosa fare. Quali strade prendere, nella consapevolezza della necessità di un sano realismo politico, al di là delle facili retoriche. Nulla, insomma, deve essere “ideologico”. Ma, all’inizio del suo articolo, ricorda una frase di Keynes (“Nei tempi lunghi saremo tutti morti”). Il quale Keynes, mi vien da dire, sta “in mezzo” tra il protezionismo e il neoliberismo. Perché l’economista britannico non era certo un “dirigista”, ma un liberale che non crede che il mercato si autoregoli da sé per forza. Ma pur sempre un liberale, che non riduce il problema della libertà all’agire economico. Non certo un apologeta del laissez-faire, pur non mettendo mai in dubbio la superiorità del mercato rispetto ad altri sistemi economici.

Ed è proprio la mancanza di validi meccanismi di autoregolazione del mercato la questione più evidente venuta fuori dalla crisi economica. Che ha dato uno scossone non da poco a quelle che venivano considerate certezze granitiche. Lo stesso Alan Greenspan ha detto, commentando la crisi, di aver “trovato una pecca nel modello che consideravo la struttura di funzionamento cruciale che definiva come va il mondo. Proprio per questo sono rimasto sconvolto perché, per oltre 40 anni, ho creduto che vi fossero prove inconfutabili che il modello funzionasse eccezionalmente bene”.

La crisi del modello neoliberista non ha sancito certo la vittoria del keynesismo. Ma solo la ripresa di un suo confronto teorico con il neoliberismo.

L’aumento della spesa pubblica c’è stato, ma non ha riguardato la spesa sociale, fatta, tra l’altro, di sanità e pensioni. Non si è ritornati allo slogan del periodo della Grande Depressione “No more unemployment!”, rispetto a quello “No more inflation” degli anni Ottanta.

Il sostegno pubblico è arrivato dagli Stati, ma ha riguardato banche e le grandi imprese in difficoltà. Nulla, insomma, per la redistribuzione del reddito, rispetto a chi questa crisi l’ha sofferta in pieno, con grosse problematiche per l’oggi e il domani. In tutto questo, però, è venuta fuori la necessità (e si spera la consapevolezza) di una politica economica in cui i poteri pubblici possano intervenire non solo come “regolatori del traffico”. Ed invocati quando si è con l’acqua alla gola dagli stessi neoliberisti, per salvare banche e aziende. È il ruolo della politica rispetto all’economia che dovrebbe essere rivisto. Soprattutto in un’epoca di globalizzazione, che nessuno può pensare davvero di arrestare. Perché il potere politico che oggi potrebbe esercitare un singolo Stato è davvero poca cosa, e risultare ininfluente rispetto alla mole di scambi e interconnessioni che viviamo quotidianamente.

Forse, anche le politiche keynesiane andrebbero riviste in un contesto dove non predomina più lo Stato-nazione. Nell’Europa occidentale post-bellica abbiamo visto, accanto alla ricostruzione, anche la rinascita (ricostruzione) dello Stato nazionale. Ma con una caratteristica non da poco: ovvero, Stato nazionale come Stato sociale. Tutto ciò man mano che cessavano le chiusure nazionalistiche, che non poco peso avevano avuto nelle tragedie della Seconda guerra mondiale.

Per la nostra economia iniziavano i Trente Glorieuses. Un periodo di crescita economica impetuosa, accompagnata da una forte redistribuzione del reddito. Resa possibile da una gestione macroeconomica, fondata su una certa discrezionalità, da parte dei governi europei occidentali.

Al mercato venne conferito un ruolo “ancillare”, al fine di procurare le risorse necessarie. Ed era Keynes ad offrire le basi teoriche necessarie al potere politico per questo tipo di attività. Che, come ricordato da Alan Milward, creò “un mondo mentale nel quale la macchina politica nazionale poteva e doveva essere usata al fine di elevare il benessere generale, aiutando così le élite politiche del dopoguerra a trovare la giustificazione ideale che serviva loro”.

Era il tempo dell’embedded liberalism e del primato della politica.

Quando è iniziato il percorso di costruzione della Comunità europea, si pensava ancora di poter applicare “Keynes in casa e Smith all’estero”. Ma durò poco, perché arrivarono sia la fine del sistema di cambi fissi ideato a Bretton Woods, che la crisi petrolifera. Milton Friedman vinceva il premio Nobel per l’economia nel 1976. E un Paese venne, da lì in poi, considerato virtuoso in forza della stabilità della moneta e dell’efficacia della supply-side economics. Ora, in un mondo sempre più globalizzato, è la politica a diventare ancillare all’economia, sempre più dominata dalla finanza.

Questi sono cambiamenti epocali, che si sono portati dietro non solo la crisi che stiamo vivendo, ma anche mutamenti di poteri o di luoghi del potere, almeno così come gli avevamo conosciuti. Mettendo in crisi anche il vecchio concetto di rappresentanza. Con un portato, come direbbe Niklas Luhmann, “di un sovraccarico di domanda, per cui i sistemi politici hanno una maggiore e continua difficoltà a rispondere alle richieste dei cittadini”.

La politica oggi sembra incapace di rivendicare l’esercizio di un potere. Venendo comunque chiamata in soccorso, alla bisogna, da chi ne chiede contemporaneamente (e ideologicamente) il ridimensionamento. Ma la rivendicazione di un potere equivale ad erigere muri? O ad alzare toni populistici e divisivi, che si amplificano meglio con l’identificazione di un nemico? Questo è nazionalismo, un’ideologia. Pericolosa, molto pericolosa.

Donald Trump afferma che una nazione senza frontiere non è una nazione. Politicamente, oggi, è così, anche secondo le consolidate dottrine politiche. Ma un confine non coincide per forza di cose con un muro. Il quale rappresenta, invece, una totale chiusura (politica).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:26