La grande sfida di Donald Trump

Meno male che il 45esimo presidente americano si chiama Donald Trump. Un presidente non allevato come i predecessori in un partito, è uno che nella vita ha lavorato, sa come funzionano le cose e, proprio perché non proviene dalla politica, non deve ricambiare favori a nessuno. È per questo motivo che l’establishment lo detesta. Trump ha capito una cosa fondamentale: la politica è una palude da ripulire a fondo e nel discorso inaugurale ha voluto sottolineare che la sua elezione non ha avuto nulla a che vedere con il rituale del trasferimento di potere tra partiti, i soli a prosperare nella palude mentre le fabbriche chiudono e i posti di lavoro evaporano. La sua elezione, ha affermato, è il trasferimento dei poteri al popolo. Parole da abile populista, si dirà, ma è un fatto che Trump oggi esiste per i danni enormi commessi dalla sinistra progressista, il più grave dei quali è aver ignorato la classe lavoratrice. La creazione di posti di lavoro o riportare il lavoro in America, come dice il neo presidente, è la vera, enorme sfida. Perché se fallirà in questo obiettivo difficilmente fra quattro anni sarà rieletto, con il rischio che il Partito Democratico riprenda il sopravvento magari guidato da una Michelle Obama. Nel qual caso, addio per sempre America.

Trump da anni ha compreso che la “narrativa” della crescita economica americana era una bufala e sa bene che il suo Paese si è deindustrializzato dopo decenni di politiche folli che hanno toccato il culmine con Barack Obama. Apple è un’azienda americana ma tutti i componenti della gamma dei suoi prodotti, dall’iPhone all’iPad, dall’iPod al MacBook provengono dall’Asia. Fornitori e subfornitori di aziende come Ford, Chrysler e Tesla Motors sono acquistati al di fuori degli Usa in 60 Paesi, tra cui e in maggior parte in Asia. Da Walmart il più grande retailer statunitense, tra migliaia di merceologie, non si trova un prodotto made in Usa. Lo stesso dicasi facendo lo shopping on-line su Amazon. Purtroppo, insieme ai prodotti, sono espatriate anche le professionalità che li creano, soprattutto quelle ad alta qualificazione.

Dunque Trump è ben consapevole che la supply chain industriale americana è stata trasferita all’estero e, insieme, una parte cospicua del prodotto interno lordo con la conseguenza, tra l’altro, del collasso della base imponibile a livello locale e federale. Nello stesso tempo la riforma sanitaria obamiana, mentre ha ingrassato le compagnie di assicurazione, ha dato un colpo mortale alle piccole e medie aziende. Oggi, quasi 50 milioni di americani vivono di sussidi. La situazione è tragica e Trump ha promesso un’inversione di rotta.

Purtroppo l’inversione di rotta rischia di far infrangere l’America contro un enorme scoglio: il protezionismo. Crede, il neo presidente, di riportare il lavoro a casa scatenando guerre commerciali con i partner e, in particolare, con la seconda potenza mondiale, la Cina, accusata anche di manipolare la sua valuta a danno dell’America? Ma chi nel mondo attuale non manipola la valuta? Non ricorda, “The Donald”, che sono stati proprio gli Stati Uniti a fare scuola in questo campo? Non ricorda che fu proprio un suo famoso predecessore, nel 1971, a violare gli accordi monetari e dare inizio alle guerre e instabilità valutarie? Non è stata la Cina o la cosiddetta globalizzazione ad aver rubato i posti di lavoro all'America. È l’America stessa ad averglieli ceduti in un lento quanto inesorabile e subdolo processo innescato clonando valuta a volontà invece di produrre. Lo scambio Usa-Cina non è stato prodotti americani contro prodotti cinesi, ma debito statunitense contro prodotti cinesi. Non è questa la causa del deficit commerciale permanente americano rispecchiato dai trilioni di riserve accumulate dalla Cina di cui ora questo Paese si sta liberando? Chi stampa denaro per importare invece di produrre per esportare, pagando in tal modo le importazioni, vive al di sopra della propria capacità produttiva e finisce per darla in appalto al partner finanziatore. E così è accaduto. Certo, i bassi salari della Cina e di altri Paesi emergenti hanno amplificato la crisi di destrutturazione, ma quando l’America era grande, cioè fino agli anni Sessanta, il salario e la produttività del lavoratore medio statunitense erano i più alti del pianeta e questo fu il motivo della leadership industriale degli Stati Uniti, oggi perduta.

Dio non voglia che Trump imbocchi la strada del protezionismo come il suo predecessore Herbert Hoover che, verso la metà del 1930, firmando la Smoot-Hawley, un provvedimento di tariffe doganali, aggravò la depressione, impastoiò il commercio internazionale, aumentò i costi di importazione, colpì il consumatore e ridusse le esportazioni. Le conseguenze del protezionismo sono sempre disastrose e portano a vere e proprie guerre, quelle che Trump con la sua politica di distensione vuole evitare. Nessuno ha mai vinto con le guerre commerciali e Trump non pensi di essere più scaltro e intelligente dei suoi predecessori.

Trump ha solo un modo di ricostituire la supply chain e far ritornare il lavoro in America: renderla fiscalmente più competitiva. Come? Eliminando le tasse sul reddito delle imprese e spostandole sui consumi. Non tassare chi impiega capitali e chi rischia significa aumentare la domanda di lavoro e quindi l’occupazione. Tassare le imprese, invece, significa diminuire la domanda di lavoro e penalizzare l’occupazione. Solo eliminando le tasse Trump può ricostituire il tessuto di piccole imprese distrutto dal fisco. Sono le piccole imprese a creare la maggior parte del lavoro in un Paese, non quelle grandi. Tagliare le tasse sui redditi significa permettere alle piccole imprese di diventare medie, e alle medie di diventare grandi, liberando tutte le energie creative nel sistema industriale. Parallelamente, Trump dovrebbe tassare le imprese che non producono valore aggiunto all'interno ma all'estero. La misura può apparire odiosa, ma è l’unico modo di evitare l’imposizione di dazi e non contravvenire alle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio che supervisiona gli accordi commerciali.

Il neo presidente dovrebbe ricordarsi che l’America divenne la più grande potenza mondiale proprio perché fino al 1913 non esistevano le tasse sui redditi, ma solo sui consumi. Dovrebbe inoltre ricordarsi che a partire da 1945 i politici giapponesi, per ricostruire velocemente l’economia distrutta dal conflitto mondiale, eliminarono le tasse su investimenti, guadagni in conto capitale, profitti, plusvalenze, interessi e rendite perché compresero chiaramente che tutto il capitale esentato dalle tasse sarebbe stato automaticamente reinvestito nell'economia. Ciò avvenne e il Giappone prosperò fino al 1970. La rivoluzione che Trump deve fare è di ritornare alle origini non solo tagliando le tasse ma anche quella spesa pubblica che rende prospera “la palude” e questo sarà il compito più difficile e impopolare perché gran parte dell’elettorato campa su sussidi ormai considerati diritti acquisiti ma che, non Trump, ma la crisi mondiale revocherà dovunque.

La transizione pertanto sarà molto dura, ma Trump ha fatto l'errore di non dirlo chiaramente a un elettorato che dopo decenni di politiche distruttive si aspetta miracoli. Il rischio pertanto è che, per salvare capra e cavoli, accontentare questi e quelli, perda di vista l’obiettivo fondamentale diventando il presidente di un nuovo establishment ammantato di anti-establishment.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:28