La Consulta boccia il referendum sui licenziamenti

L’11 gennaio, la Corte costituzionale riunita in Camera di consiglio ha dichiarato ammissibile la richiesta di due dei tre referendum proposti dalla Cgil in materia di lavoro, quello sulla responsabilità solidale in materia di appalti e quello sull’abrogazione del lavoro accessorio, ossia dei voucher.

I giudici hanno invece dichiarato inammissibile il quesito sulla “abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”.

Il rischio di dover rimettere indietro di 40 anni le lancette dell’orologio per effetto del ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori in una versione “potenziata” e, per di più, estesa anche alle microimprese, è dunque per il momento scongiurato.

E anche il nucleo forte del Jobs Act, il contratto a tutele crescenti per i nuovi assunti, può dormire sonni tranquilli e con lui il neo insediato Esecutivo, cui è stata tolta dalle mani la vera patata bollente. Rivedere la disciplina dei voucher e della responsabilità negli appalti non dovrebbe infatti rappresentare un compito particolarmente gravoso, trattandosi di istituti di rilievo marginale o di limitato impatto, e comunque a modesto gradiente emozionale. Tanto che, anche nella remota ipotesi in cui si dovesse andare al voto, la probabilità di raggiungere il quorum sarebbe comunque bassissima.

Quanto ai licenziamenti, sarà interessante leggere le motivazioni della pronuncia. In ogni caso, si può sin d’ora affermare che la decisione della Consulta è senz’altro giuridicamente corretta e politicamente opportuna.

Giuridicamente corretta perché il quesito, come osservato da numerosi esperti (tra cui Giuliano Cazzola, Pietro Ichino, Tiziano Treu) era non solo plurimo, ma anche propositivo e manipolativo in quanto finiva per creare artificiosamente una norma nuova.

Politicamente opportuna perché quello della flessibilità in uscita, ossia della disciplina dei licenziamenti, è un tema estremamente tecnico, molto delicato, con ricadute pratiche importanti e che quindi richiede di essere maneggiato con cura, che non può essere affidato ad un voto plebiscitario né risolto frettolosamente da un Governo fisiologicamente destinato ad avere breve durata o da un Parlamento già in odore di elezioni. L’esito, peraltro, non era scontato: attraverso un “taglia e cuci” si sarebbe potuto salvare il quesito referendario almeno in parte. Certo, si sarebbe trattato di una soluzione creativa e decisamente poco ortodossa. Certo, si può dire, ha prevalso la linea del diritto e del buon senso. Ma un finale diverso era comunque possibile.

La decisione presa può dunque anche essere letta come un segnale che, dopo la nomina dei tre nuovi giudici a fine 2015, gli equilibri all’interno della Corte sono mutati e che sentenze antisistema o “politicamente scorrette”, come la n. 70 del 2015 (relatrice Silvana Sciarra), che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni previsto dalla Legge Fornero, creando un grosso grattacapo all’Esecutivo, appartengono ad una stagione ormai superata.

Concludo facendo un po’ di dietrologia. Se chi ha proposto il quesito l’avesse formulato diversamente, separando l’abrogazione del decreto sulle “tutele crescenti” dal resto, avrebbe comunque ottenuto un risultato concreto molto rilevante: il ripristino di una protezione efficace contro i licenziamenti illegittimi anche per i neo assunti.

La domanda è dunque: perché non l’ha fatto? Se anche la presentazione sul sito della Cgil è volutamente errata e fuorviante (lasciando intendere che l’attuale tutela sia solo risarcitoria, anche per i vecchi assunti, che la reintegrazione sia oggi del tutto scomparsa e che la proposta referendaria sia quella di reintrodurla ma solo per i licenziamenti disciplinari), la competenza tecnica di chi ha scritto il quesito è indubbia. Difficile credere che il suo estensore o i suoi estensori non abbiano preso in considerazione la probabile bocciatura da parte della Consulta. Forse, dunque, l’obiettivo era un altro: fare propaganda, richiamando l’attenzione su un evergreen capace di scaldare gli animi, come l’articolo 18, e allo stesso tempo lanciare un monito ad un Governo (quello targato Matteo Renzi) che sui temi del lavoro ha deciso molto e dialogato poco.

La cassa di risonanza mediatica è stata suonata. Il messaggio è arrivato forte e chiaro alle orecchie del destinatario. La missione, nonostante il cartellino rosso della Consulta, può quindi forse dirsi comunque compiuta.

(*) Professore di Diritto del lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:27