Sopra la banca   De Benedetti campa

L’Italia ha un debole per le liste di proscrizione. Ma qualche volta anche una legittima curiosità. Ai tempi di Michele Sindona, quando chi scrive portava i pantaloni corti, si fantasticava sull’identità dei 500 esportatori di capitale la cui lista si è tramandata dal banchiere di Dio, morto in carcere dopo aver ingerito un caffè al cianuro di potassio, a Licio Gelli per poi finire chissà dove. Quei nomi non vennero mai fuori. Tranne alcuni altisonanti. E abbondantemente caduti in disgrazia. Che era la conditio sine qua non per l’autorizzazione allo sputtanamento. Che sostituiva le odierne pratiche burocratiche della legge sulla privacy.

Oggigiorno si ipotizza di rendere pubblici i nomi dei primi seicento “sòla”, o “bidonisti” che dir si voglia, accusati di non essere in grado di restituire soldi prestati o affidati dai maggiori gruppi bancari italiani per cifre che vanno dai seicento milioni di euro della Sorgenia di Carlo De Benedetti, fino ai 70 milioni di euro arrivati ad Alfio Marchini. Passando per un sacco di vecchie conoscenze della cronaca giudiziaria degli ultimi anni, finanza spericolata e gruppi che possiedono giornali e pezzi delle stesse banche che gli hanno dato i soldi, da Romain Zaleski e gli amici di Giovanni Bazoli nel “Corriere” fino ai costruttori come i Federici, i Bellavista Caltagirone e tanti altri ancora, elencati doviziosamente in un articolo pubblicato ieri da “La Verità” di Maurizio Belpietro.

Fa ridere che a chiedere la trasparenza sui raccomandati delle banche siano i banchieri, anche se Antonio Patuelli evidentemente deve aver avuto un rigurgito einaudiano, in un momento di resipiscenza in cui si è ricordato di avere presieduto il glorioso Partito liberale italiano. Quando era ancora glorioso, più o meno.

Infatti oltre ai seicento bidonisti andrebbe tolta la privacy su quel sottobosco di direttori di filiale, istruttori di pratiche, responsabili degli uffici rischi, sempre implacabili con chi deve comprarsi la macchina a rate o pagare un mutuo per la casa, ma di manica larga con i suddetti raccomandati della politica e oggi anche e soprattutto della finanza. Creativa o cretina. In tutto questo martedì mattina la storia delle banche e dei “bidonisti” era in prima pagina persino sul Corriere della Sera, che essendo di proprietà, o essendolo praticamente ancora, dopo esserlo stato negli ultimi dieci anni di Intesa, Unicredit e Monte dei Paschi, deve avere avuto l’impressione di commissionare un articolo sulla corda a casa degli impiccati.

Chi invece non si è fatto scrupolo di nascondere la notizia sulle banche a pagina 31, subito rilevato da Massimo Bordin nella rassegna “Stampa e Regime” su Radio Radicale, è stata “la Repubblica”. Avranno pensato che “sopra la banca De Benedetti campa, ma sotto la banca l’Mps crepa”. La Repubblica, a onor del vero, è da considerare un giornale che, se non fosse per la propria dipendenza quasi tossica dal suo padrone (e dai suoi guai finanziari, che quasi mai si traducono in giudiziari), sarebbe in questo momento il più in auge in Italia per una serie di motivi, tra cui spicca la pochezza della concorrenza.

Così ieri, mentre gli italiani si interrogavano se fosse stato più sprovveduto Beppe Grillo in Europa o le banche e i banchieri in Italia, provvidenzialmente sono arrivate due nuove notizie a cacciare quelle vere: una spy story di due coniugi italo-londinesi che pare spiassero anche Mario Monti, Mario Draghi e Matteo Renzi (chissà poi per farci che dell’aria fritta di cui saranno venuti a conoscenza) e la solita maxi-operazione anti ‘ndrangheta in Calabria. In Italia funziona così: quando il vero potere sta per essere messo in crisi dalle legittime domande di migliaia di cittadini rimasti con il cerino in mano per colpa della maniera clientelare con cui si amministrano tanto le banche quanto le istituzioni, arrivano altre esche mediatiche per indurli a cambiare canale.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:28