Francia: l’impresa è   “reindustrializzare”

Reindustrializzare. L’imperativo più cool del momento. Le tute blu tornano di moda, ma solo perché l’emorragia occupazionale è un imbarazzo per chi tenta disperatamente di sovvertire un destino (elettorale) già segnato. E allora sotto con la retorica della nuova politica industriale, mentre gli stabilimenti chiudono e la delocalizzazioni impazzano. Che si fa? Si procede a naso, e hai visto mai che qualcuno ci casca.

La Francia, per esempio, paradigma un declino quasi annunciato (e poi dicono dell’Italia…). Per capire in che condizioni versa la “Grande malata d’Europa” basta rendersi conto di come è crollato il valore aggiunto del suo settore manifatturiero in cinquant’anni: dal 25 per cento del Pil nel 1961, all’11 per cento del 2010. Ora l’obiettivo dei “presidenziabili” è di aumentare il peso specifico dell’industria al 15 per cento entro il 2022, cioè di fare in 60 mesi quelli che si è distrutto in 15 anni. Tutti pronti a metterci una mano sul fuoco, soprattutto in un centrodestra dilaniato dal duello Sarkozy-Juppé, a promettere l’impossibile o forse a crearsi l’alibi verso un improbabile ritorno al passato.

La sfida è “gigantesca”, si legge in un documento di 22 pagine del Gfi (Groupe des federations industrielles), affiliato al Medef (la condindustria transalpina), ma l’obiettivo di risollevare l’industria entro 5 anni, tuttavia, è considerato “realista”. Molti economisti, invece, pensano che non ci sia altro da fare che staccare la spina. Secondo un’analisi della banca Natixis, reindustrializzare la Francia sarebbe molto importante, anche se non è più possibile. La battaglia, ormai, “è persa”; l’Esagono soffre la concorrenza di Paesi vicini “a basso costo” come la Spagna, e l’unico modo per rendere la Francia nuovamente competitiva, si fa notare, è abbassare i salari e le tasse per le imprese, “e questo non avverrà mai”. E poi bisogna mettersi in testa, osservano gli analisti della Toulouse School of Economics, che la deindustrializzazione è il segno fondamentale che marca l’economia moderna, la sua “secolarizzazione”. La restaurazione? No pasaran. Soprattutto alla luce di un 2016 da incubo, con una produzione industriale che nel secondo trimestre ha raggiunto i minimi storici dall’autunno 2014: meno 0,2. Nonostante i venti contrari, l’eterodossia industriale tenta lo strappo. La via la indica proprio il Gfi. La domanda interna è scartata a priori, piuttosto si punta a ristabilire un sistema più favorevole alle imprese, magari aumentando ulteriormente la flessibilità del mercato del lavoro e riducendo alcuni oneri come quelli sociali, almeno 30 miliardi in meno, si propone, o abolendo l’imposta patrimoniale, meno tasse sulla produzione e una forte diminuzione delle imposte sulle società, dal 33 al 22 per cento.

Gfi riconosce che alcuni di questi provvedimenti potrebbero avere un effetto recessivo, contro cui servirebbero alcuni contrappesi come uno scatto di competitività delle imprese e un cambio di marcia degli investimenti stranieri nell’Esagono. Intanto però la realtà racconta di un altro choc occupazionale che interessa il gruppo Alstom (cantieri navali, treni ad alta velocità, caldaie), con 480 esuberi nel sito roccaforte di Belfort, che secondo molti osservatori è il paradigma perfetto di una Francia incapace di organizzare le sue filiere, nel momento in cui la mondializzazione mette piede a palazzo. Il manifatturiero entra nel ventunesimo secolo senza la adeguate contromisure.

Nello specifico, la scissione tra Alstom e Alcatel (telefonia) alla fine degli anni Novanta rappresenta l’inizio del declino. La competitività soffre e la politica resta a guardare. Il resto lo fa l’Europa. Anzi non lo fa l’Europa, incapace di proteggere i gioielli di famiglia, condizionati dalle guerre economiche interne che esaltano la Germania e mettono in ginocchio soprattutto l’Italia. Ma ora anche Oltralpe fanno i conti con un inganno lungo vent’anni. E ora le scelte elettorali dell’impresentabile Hollande provano l’ultimo colpo ad effetto prima dei saluti: 450 milioni d’investimento pubblico per scongiurare gli esuberi in Alstom, cioè 15 nuovi treni ad alta velocità (Tgv) per tratti intercity (velocità massima 200 chilometri orari) che come tali non sono strutturati per i treni veloci, che viaggiano a più di 320 all’ora. Una mossa disperata che secondo molti osservatori non farà altro che allungare l’agonia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:26