Rai: finalmente tutti privatizzatori

La pubblicazione degli stipendi Rai sopra i 200mila euro ha riaperto le polemiche sulla Televisione di Stato.

Mentre per chi è fuori da un’azienda e non conosce le condizioni di mercato è difficile ragionare su quale sia il “giusto salario” per una certa professionalità o un certo servizio, è indubbio che la radiotelevisione pubblica è da lustri la “Disneyland” dei partiti politici. Ciò che rende scandalosi certi stipendi è la modalità di reclutamento di dirigenti e protagonisti del video, selezionati spesso per appartenenza, per vicinanza al potere politico pro tempore, e rimasti sulle spalle del contribuente. Per risolvere il problema, però, la trasparenza non basta - e siamo contenti che i partiti di opposizione sembrino averlo capito, inclusi quelli che hanno fatto una bandiera della lotta al “neoliberismo”.

Il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, si è rifiutato di esprimersi sui singoli casi e ha auspicato una privatizzazione della tivù pubblica. Ci fa piacere che anche il Movimento 5 Stelle, per bocca dell’onorevole Roberto Fico, sia pronto a considerare la possibilità di privatizzare almeno dei “pezzi” della Rai. Ci sono senz’altro, nella televisione pubblica, competenze e capacità che potrebbero essere valorizzate sul mercato. L’onorevole Fico, però, intervistato dal quotidiano “La Stampa”, pone due condizioni: il varo di una legge contro le concentrazioni e quello di una norma contro il conflitto d’interesse. Si possono avere opinioni diverse sull’efficacia dell’una o dell’altra, ma esse già esistono in Italia: e ad assicurarne il rispetto è l’Antitrust. Stupisce che un Movimento così attento alla Rete e alle nuove tecnologie ponga, oggi, la questione delle concentrazioni editoriali. L’applicazione di rigidi vincoli al numero di reti possedute, il divieto di incrocio stampa-tv, avevano senso in un mondo nel quale stampa e televisione erano il collo di bottiglia per il quale doveva passare ogni contenuto d’informazione. Proprio il successo del Movimento 5 Stelle, trainato dalla sua attività sul web, dimostra quanto le cose siano cambiate.

La televisione generalista resta importante: ma lo è molto di meno, ai fini del dibattito delle idee, di quanto non fosse vent’anni fa. Per questa ragione le norme che regolano il comparto editoriale sarebbe opportuno rivederle, ma secondo logiche meno restrittive. L’ambizione di vendere pezzi di Rai per sottrarne il controllo alla politica resta una buona idea. Così come quella di mettere mano alla disciplina della pubblicità: una Rai che facesse davvero “servizio pubblico” non dovrebbe mettersi in concorrenza con chi fa attività di mercato, per la raccolta pubblicitaria. E una Rai più piccola, meno tentacolare, più sobria nelle spese, che ha lasciato al mercato tutto quel che poteva lasciarvi, è senz’altro in posizione migliore per fare “servizio pubblico” e riguadagnarsi il rispetto dei contribuenti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:19