“Pianeta monarchia”: analisi e prospettive per il Terzo millennio

martedì 24 ottobre 2023


L’eminente studioso di storia e letteratura, il professor Luca Lombardi, collaboratore di diverse università europee, ricercatore numismatico e responsabile della casa editrice “Biblionumis Edizioni”, nonché ispettore per la Puglia e delegato per la provincia di Bari dell’Istituto nazionale per la Guardia d’onore alle reali tombe del Pantheon, ha pubblicato, in aggiunta ai suoi sette volumi e ai numerosissimi contributi su riviste scientifiche nazionali e internazionali, il suo ultimo libro, Riflessioni sulla monarchia” (edizioni Ingort, Ispettorato Puglia-Delegazione Bari, 2023). Trattasi di un assieme di elevate considerazioni sui fondamenti del pensiero monarchico, onde promuovere a tutto campo una nuova e più accurata riflessione, scevra da pregiudizi ideologici, sull’istituto monarchico e sul suo possibile reinserimento – sostanziantesi questo in una robusta ispirazione etica e in una più matura consapevolezza di ulteriori proficui sbocchi di decongestionamento politico/ideologico – nel quadro socio-politico in atto, da iscrivere in un incupito clima da “guerra civile” e caratterizzato da un colossale difetto di coscienza politica. Il professore, con rilevante acume e in modo originale nell’attuale dibattito politico, introduce subito due piani esegetici, fondati l’uno su una visione puramente istituzionale della teoria monarchica, l’altro su una sua proiezione dottrinaria a carattere generale dello Stato, dato che la prima, priva della sua dimensione teoretica correlata ad una concezione più specifica dell’essere umano e della società, si rivelerebbe di per sé insufficiente, non rilevandone caratteri morali più elevati, a legittimare pleno titulo l’istituto monarchico. In tal modo, implicitamente l’insigne autore confuta la tesi, sostenuta dalla scienza giuridica, circa la scarsa portata oggigiorno della distinzione tra Monarchia e Repubblica, avuto riguardo ai reali meccanismi di governo, nell’ambito della forma di Stato di democrazia classica occidentale: ciò in quanto, le reali funzioni deliberative sono passate dal Re ai suoi ministri, che risultano politicamente responsabili solo verso il Parlamento, talché il Sovrano stesso avrebbe assunto la figura di un semplice consigliere ereditario dei suoi ministri, così come avviene nella forma di governo costituzionale parlamentare repubblicano. Insomma, un todos caballeros – ciò può avere, semmai, una sua validità soltanto per il versante giuridico/istituzionale, che assolve sic et simpliciter da ogni peccato le formule governative e i reali meccanismi di funzionamento del Governo repubblicano parlamentare – che “omogeneizza”, ancorché su un piano esclusivamente tecnicistico, due distinte formule di Governo della società mediante la semplice affermazione della neutralità di un Re nel contenzioso politico, rappresentando egli un unico punto di riferimento per tutti i cittadini. Decisamente troppo poco! E sì che, in siffatta prospettiva esclusivamente istituzionale, ogni tentativo di distinzione si rivelerebbe del tutto inidoneo a cogliere gli aspetti più salienti della questione.

L’illustre professore, invece, scompaginando luoghi comuni, dati per acclarati nell’ambito di una vulgata, approssimativa ed estremamente semplicistica, quando non proprio poggiante su elementi di perfetta malafede – il che non è del tutto nuovo nel campo storiografico e politico di questa grigia Repubblica, con tutti i suoi artefatti rituali, in quanto non poggianti su un’idea solida di nazione e di unità nazionale – ci prospetta una visione, un present e un future by vision”, di ben più alta levatura morale, quasi che una dimensione epistemologica dell’istituto monarchico: dunque, non già una sterile fascinazione epicedica, bensì le coordinate di un diagramma esegetico di primordine, una rappresentazione gnoseologia in quanto conoscenza volta alla ricerca della sua stessa verità, una “escatologia” collegata al destino del singolo individuo come entità concreta perfettamente integrata nel processo storico, nel suo “continuum” che in re ipsa ingloba una tradizione, in termini di onnicomprensività di valori imprescindibili legati al nucleo primario della società – la famiglia – e alla sua allocazione in un ambito sacrale, la Patria. L’autore sistematizza, quindi, le sue riflessioni in argomento, dando loro una forma organica che si traduce in una visione concreta dell’essere umano, soggetto a patologiche aggressioni miranti al disfacimento della sua essenza vera, collegata indissolubilmente alla cellula naturale della società, appunto l’istituto familiare: la sua “messa in liquidazione” è iniziata alla fine degli anni Sessanta, proseguendo senza sosta sul piano inclinato della sua disgregazione totale, unitamente ad altri fattori “tossici”, quali il vistoso calo demografico, le sconsiderate politiche immigratorie terzo/quarto-mondiste in atto, con la conseguente perdita di sicurezza, l’abolizione di ogni identità nazionale. La nazione, la stessa idea di nazione, è morta nel cuore di una società “liquefatta”, o in via di decisiva “liquefazione”, in uno al suo completo disfacimento valoriale. Pertanto, solo partendo da un recupero della interiorità dell’uomo, animato da sempre da aspettazioni escatologiche, ciò che può realizzarsi solo in virtù di un umanesimo alto definitivamente alleato dei valori etici cristiani, egli può scoprire, pur nella sua miseria mondana, la sua vera grandezza nella misura in cui sente operare dentro di sé una forza eterna e immortale. Solo da tutto ciò potrà discendere la riconquista della sua libertà interiore, in uno a quella più prettamente terrena come acquisizione dei valori del liberalesimo, derivandone poi anche una rivalutazione delle istituzioni sociali e naturali, in primis la famiglia. Non diceva forse Benedetto Croce che “il liberalesimo ha abbattuto gli steccati dell’oppressione: la libertà ha di per sé l’Eterno”?

La libertà – lato sensu – di Croce, analogamente a quella concettualizzata dal professor Lombardi, diviene un paradigma dotato di una sua intima “religiosità”, la crociana Religione della libertà che però, a seguito della dissociazione dalla storia reale, così come enunciata nella sua “religiosa” opera Storia d’Europa del secolo decimonono, diventava sempre più una fede metastorica: si era così consumata, a onta della barbarie totalitaria in cui era precipitata l’Europa, la teofania per cui la storia altro non è che l’attuarsi dell’Assoluto! È qui che il professore, in base ad un “principio di realtà”, in special modo in una società complessa e multiforme come quella attuale, fuoriesce dall’iperuranio dei “principi” per calarsi nel momento arazionale che si pone dietro il confronto dei valori alti della politica – che trova fondatamente la sua premessa nello spirito etico, divenendo altresì un suo strumento attuativo dotato di una sua moralità – mettendo al vertice della società, rinnovata e riportata ai veri valori umani, un’Autorità governante, né dionisiaca né delirante e liberata da veleni ideologici, che possa degnamente rappresentare l’unità. Però non una gestione di partiti – afferma – ma un Governo che sia indissolubilmente legato alla Patria. Cosicché, proprio in siffatta prospettiva troverebbe la sua vera ragion d’essere la Monarchia, assolutamente in grado di trovare una sua vigoria in una effettività sociale, tuttora ammorbata dalla “mitologia dell’eguaglianza” – indiscriminatamente del tutto a tutti – come “frutto avvelenato” di una noumenica Sinistra, ben lontana dai valori liberali e imprigionata in un irenismo d’accatto, oggi più che mai affetta da una “bustrofedica” dissociazione cognitiva e ancora racchiusa in una macabra identità irrisolta: da ultimo, pur a fronte di recentissime atrocità commesse in nome di una brutale ideologia politico/religiosa, continua imperterritamente a serbare le sue consuete ambiguità dottrinarie e socio/politiche.

Cosicché, proseguendo in siffatta scia d’indagine basata sul “principio di realtà”, l’autore pone, in buona sostanza, l’interrogativo in ordine alle modalità di rivendicazione dell’esercizio del potere sulla base di un’autorità legittimamente riconosciuta – ciò che i liberali interpretano in maniera problematica, appunto, in ordine al rapporto tra istituzioni e società – soprattutto in una visione omogenea, organica dello Stato, massima espressione di “autorità” di una comunità nazionale, al cui vertice non può collocarsi se non un soggetto che non sia una diasporica estrinsecazione partitica o di particolari gruppi d’interesse e che, soprattutto, non incentri la legittimità del suo potere su consultazioni elettorali. Comunque, ancorché possa godere di una maggioranza più o meno ampia, rimarrà sempre uomo di parte, cosicché viene a perpetuarsi quell’instabilità di rapporti tra liberalismo e democrazia, che, soprattutto con l’espandersi dei compiti dello Stato moderno, appaiono sempre più precari e corruttibili in virtù dei meccanismi elettivi e di maggioranze. Non v’è chi non veda, dunque, come inevitabilmente una grossa “voglia di topo” – la faccia nascosta della Repubblica – macchi la guancia sinistra della Democrazia rappresentativa, vale a dire quella basata sul Governo della maggioranza pur nel rispetto dei diritti della minoranza, poiché, pur ammettendo il suo esercizio in un ortoprassico sistema di governance complessiva, essa è sempre suscettibile di una rousseauiana degenerazione in “democrazia totalitaria”, un monstrum comunitaristico che si traduce in una tirannia del “tutti noi”, una cianotica pseudomorfosi della rappresentanza democratica. Infatti, quella rousseauiana era e rimane solo una nuova religione civile, una visione escatologica della democrazia – così come appunto elaborata nel Contratto sociale – consistente in un ideale mistico della società. Solo un Re ereditario, ci dice il professore, basando il suo potere sul consenso immediato e naturale del suo popolo, può avere quella autorità morale per conferire allo Stato una forza che, in un sistema elettivo, il “custode” temporaneo e intercambiabile al vertice della potestà statuale non potrà mai avere. Perdipiù, in linea più generale, tutti i “custodi” democratici temporanei e intercambiabili (presidenti, primi ministri, membri del parlamento) non sono proprietari del Paese, ma finché sono in carica è permesso loro di farne uso eventualmente anche a proprio vantaggio. Essi posseggono il suo attuale “valore d’uso”, ma non il suo valore di capitale, talché è sempre possibile lo “sfruttamento”, anzi lo rende più miope e sconsiderato, cioè perseguito senza alcun riguardo per il valore del capitale di un Paese. Per converso, il “proprietario” di un monopolio ereditario, dovendolo trasmettere in eredità ai figli, si curerà necessariamente di evitare che le sue azioni possano ripercuotersi negativamente sul valore del capitale di tale monopolio: in conseguenza, come proprietario del “suo” territorio, il Re sarà al confronto più lungimirante e recherà in sé l’imparzialità.

Né, peraltro, nella forma di Governo repubblicano costituzionale puro – la Repubblica presidenziale – le discrasie innanzi evidenziate per quella parlamentare sono suscettibili di rimozione, in quanto il Capo dello Stato, in tale fattispecie anche capo dell’Esecutivo, è pur sempre un’espressione partitica: il difetto è, per così dire, sistematico (tipologia degli errori sistematici) e risiede proprio nella temporaneità e intercambiabilità dell’organo de quo, ciò che costituisce la quintessenza della forma di Governo repubblicano. Di certo, alla intercambiabilità della massima carica dello Stato nella Repubblica, si connette inevitabilmente, nel momento della successione, un’incertezza politica, che potrebbe anche generare una pericolosa frattura politica e/o una impasse istituzionale tale da paralizzare, in tutto o in parte, un’efficace azione di governance complessiva, intendendo per tale la globale attività combinata governo-parlamento, in special modo in quei Paesi, appunto come l’Italia, poco coesi ideologicamente e politicamente. L’istituzione monarchica eviterebbe, invece, tutto ciò, in quanto custode dell’unità e unicità dell’autorità dello Stato al di là e al di sopra dei mutamenti di Governo e di indirizzo politico, così come nel regime aveva rappresentato la continuità storica, rimanendo la garante della nazione oltre qualsiasi abito ideologico, incluso quello fascista; infatti, la vocazione dei Savoia nel processo organico di sviluppo della nazione era senza alcun dubbio un dato strutturale, cosicché alla Monarchia sabauda era da ascrivere un’attitudine indiscutibilmente liberale. Anzi, dovremmo riflettere tutti sul suo ruolo in un possibile processo coesivo nazionale. Insomma, avrebbe potuto essa, dove fosse rimasta al timone istituzionale del Paese, evitare lo sfaldamento dello Stato in quanto titolare della esclusività e dell’omogeneità dell’autorità statale, così come era del resto avvenuto negli anni del regime, come garante della nazione? In altri termini, avrebbe potuto costituire un argine ai processi di ideologizzazione e di frammentazione partitica di una lacerata, plumbea Repubblica – una Repubblica che affonda le sue radici su qualcosa di estremamente divisivo dopo un referendum istituzionale svoltosi soprattutto sotto la minaccia dei “mitra lombardi”, ma data come frutto “superbo” dell’”epopea” resistenziale – nata con delle tare ereditarie che le sfigurano le sembianze, in quanto fondatasi su un compromesso negativo, basato su equivoci e contraddizioni profonde? È certamente lecito dubitarne, ma non è legittimo non chiederselo nemmeno! Ma in questa Italia distratta e qualsiasi sono solo pochissimi – e tra questi certamente il professore – a porsi siffatto interrogativo. L’autore prosegue nella trattazione, incentrando la sua analisi su aspetti salienti, cosicché si sofferma sulla enunciazione di un innato concetto etico che sorregge il consenso – in termini di fedeltà, di onore e di devozione – verso il monarca; il giuramento alla Repubblica, invece, non fondandosi su siffatte spontanee idealità, si trasforma in una vuota formalità “priva di sacralità e disumanizzata”. La Monarchia acquista, dunque, un senso compiuto, quasi che escatologico, in quanto si pone agli antipodi dell’individualismo sfrenato e del dilagante libertarismo, una realtà complessiva in cui tutto è relativizzato e funzionalizzato al sociale, una mitridatizzata società, condannata in tal modo a collassare – in un sistema economicamente instabile di moderno Stato sociale – sotto il peso del suo stesso parassitismo. Un “dio” fallito, dunque, un totem destinato a sfaldarsi: sono arrivati, come padroni, i nuovi Hyksos!

In siffatto contesto di disvalori, pertanto, la Monarchia autolegittima la sua autorità e la sua azione in vista dell’instaurazione, o meglio del recupero di valori umani – sempre più vituperati, disprezzati, calpestati, derisi e disumanizzati – in una parola liberali nel senso pieno del termine, così come affermatisi dalla “Rivoluzione atlantica” e affinati, in Italia, fino alla caduta della dell’istituto monarchico: da qui è scaturito progressivamente un “non-white-world”, una cupa istituzione repubblicana con tutti i suoi rituali di cartapesta, con la sua democrazia liquida” su cui è scesa un’”ombra lunatica”, fondatasi su una sulfurea mitologia costituzionale come mera, quanto sterile affermazione di diritti, a cui si sono aggiunti, in un politically correct oscillante tra la mistificazione e il ridicolo, altri nuovi e assai discutibili – dalle scellerate politiche immigratorie, con tutto il suo cinico corteo di falsa accoglienza, ad un certo tipo di maternità “ globalizzata”, dalla fluidità di genere al fondamentalismo ambientale e alla rivoluzione alimentare, e così via – in un popolo malato veleggiante disinvoltamente su una nave, seduto in coperta a guardare i gabbiani mentre nella stiva sta trasportando il cadavere della nazione. Dunque, è l’idolatria dei diritti umani di una democrazia pervertita e invertita, un impiastro democratico in un intreccio grottesco tra tragedia e farsa di un Paese in cui non c’è più posto per l’Arca Santa degli indeclinabili valori liberali e nazionali e men che mai c’è posto per gli eroi e per tutti i caduti, diventati solo stracci senza memoria ingoiati dall’oblio! È la società di un Paese triste, designata al fato di una cattiva morte, non percorsa neppure da un brividio di presentimento, che avanza verso il suo destino a passo di danza!

Le ulteriori considerazioni del professore si sviluppano su vari versanti: da quella istituzionale, in cui nette in risalto un indissolubile trait d’union Stato-famiglia, alla salvaguardia delle individualità insita nell’istituto monarchico, dalla sua propensione a proiettare l’animo umano nella ricerca dell’Eternità alla rispondenza della Monarchia alle leggi di Dio, dalla “vocazione” fondativa dello Stato italiano da parte dei Savoia al ruolo svolto dalla Monarchia a partire dal Risorgimento fino al suo tragico epilogo. Un excursus, dunque, a tutto campo, un’incommensurabile, intelligente lavoro di analisi teso a evidenziare l’intima connessione dell’istituto monarchico con l’identità italiana nonché ad offrire una prospettiva per il futuro che poggi i suoi pilastri sul pensiero monarchico, così come “promette” il sottotitolo di questo scritto. Di certo, l’esimio professor Lombardi, nella sua multiforme, versatile attività intellettuale al più alto livello di pensiero politico-filosofico, ha avuto grande coraggio nell’affrontare un tema così pregnante, anche per gli scenari futuri, in un clima generale di sostanziale avversione per l’istituto monarchico, basata su luoghi comuni e affermazioni diffamatorie da parte di una pubblicistica demagogica, cinica, settaria e menzognera.

Un “viaggio nel deserto” quello del professore, una mera utopia rifondativa? Certamente no! Da inguaribili idealisti, non vorremmo contemplare un giorno, con mortificata pietà, questa Italia, “che, percorsa dal riflesso abbagliante del sole nelle nuvole bianche, apparirà avvolta in un livido candore di gesso!”.


di Francesco Giannubilo