Nostalgie e realtà possibili

Prendo nota d’alcune reazioni al mio intervento sulla crisi della democrazia rappresentativa e il globalismo. Già l’ultimo Ralf Dahrendorf, nel rilevare l’impossibilità di un sistema rappresentativo in assenza d’un corpo elettorale omogeneo, a livello globale, fu preso da nostalgie per il passato degli Stati nazionali. Questo sentimento, tuttavia, non sfociò mai nella proposta regressiva di tornare in dietro a esso. La constatazione che nell’attuale momento circa il due per cento della popolazione mondiale si divide quanto prodotto dell’ottanta per cento lo portò, se mai, a considerare come democrazia non voglia dire eguaglianza di distribuzione della ricchezza, ma una mobilità sociale in cui quanti nati ai margini di una società, se capaci, possano assurgere a un ruolo dirigente, e i figli di papà, se incapaci, possano perdere la loro posizione, ma non quanto necessita per una dignità umana. Quindi insisteva su un sistema scolastico accessibile a tutti, ma selettivo, e su politiche sociali di garanzia di dignità per tutti. Nulla disse, però, su come organizzare democraticamente la comunità globale. Questo processo, comunque, non può essere arrestato, perché è uno dei caratteri della nostra civiltà.

Secondo Friedrich von Hayek, il processo avrebbe avuto origine quando i Dori, migrando nella penisola ellenica, avrebbero cacciato gli Joni sulle isole e le coste della Magna Grecia. Siamo oltre un millennio prima del Cristo. Allora questi Joni, anziché sostentarsi col produrre e scambiare all’interno della stirpe, secondo un sistema di doni incrociati tra fratelli per razza, cominciarono a commerciare con chiunque, per mare. Fu la prima “rete” nel mediterraneo. Forse, però, tutto era cominciato più di un millennio prima, duemila e cinquecento anni prima del Cristo, coi commerci dei Minoici, Creta e Santorini. Le monarchie dei Diadochi d’Alessandro Magno costituirono una Comunità, politicamente non molto coesa, ma veicolo di scambî comprendenti Grecia, Asia minore, Egitto, Persia e addirittura zone himalaiane e dell’Indo. Le guerre puniche furono conflitto tra Roma e Cartagine per il controllo del Mediterraneo. Catone si presentava nel foro romano, col ritornello: “Delenda Carthago!”; con un sacchetto di fichi prodotti in Nord Africa e commerciati dai Cartaginesi, che costavano, sul mercato romano, meno di quelli che produceva lui. Le scoperte geografiche oceaniche portarono a includere nei traffici le Americhe e il Pacifico, con la competizione, per il controllo di quelle aree, tra gli Imperi coloniali spagnolo, portoghese, olandese e britannico, soprattutto; seguiti da altri europei.

Durante tutto lo svolgimento di questo processo, assetti politici sono entrati in crisi. L’ellenismo alessandrino ha segnato la fine della sovranità delle Città-Stato greche. L’espansione romana ha travolto l’importanza effettiva dei comizî. Essi continuarono a eleggere le cariche, ma queste divennero vieppiù ruoli nella mera amministrazione urbana. Finché Roma unificò l’Italia, la sua libertas venne replicata nelle amministrazioni municipali, coi ruoli consolari dei duoviri, senatoriale dei decurioni, e le assemblee municipali. Nelle Provincie, però, vi fu il potere “prefettizio” dei proconsoli. In Costantinopoli rivissero i vecchi equilibri nel bilanciamento tra poteri, talvolta cruento: tra Imperatore, Senato e Popolo, diviso fra i due partiti della tifoseria allo stadio. Anche nella Roma d’oggi i partiti parlamentari sono in crisi, non così laziali e romanisti. Tra medioevo e prima età moderna, Venezia, sorta dal rifugio sulle isole lagunari dei cittadini romani dell’entroterra, per le invasioni barbariche, ripeté quel modello. Resse lo “Stato da mar” e la “suddita terra ferma” dando alle città del dominio delle “fotocopie” della propria Costituzione cittadina. Henry Pirenne sostenne che quel “Mediterraneo globale” si sarebbe spaccato con la conquista arabo-mussulmana della sponda meridionale. Infatti, l’Imperatore romano in Costantinopoli Leone V (814-820), vietò alle navi dell’Impero il commercio nel porto d’Alessandria, caduto in mano islamica.

Ciò, però, aveva così interrotto gli scambî, che nel gennaio dell’828 ben dieci navi venete, e Venezia faceva parte di quell’Impero romano, erano proprio nel porto d’Alessandra. A bordo ci furono quel Rustego da Torcello e Bon da Metamauco i quali, aiutati da un monaco e da un presbitero copto che intesero mettere in salvo la reliquia minacciata dagli infedeli, riportarono in Patria il corpo di San Marco, celato sotto del cavolo e della carne di maiale, schifata come impura dai doganieri maomettani. Quanto per dimostrare come anche le più alte autorità politiche non ottengano alcun risultato quando pretendono interrompere, per motivi politici, l’integrazione dei traffici. Esse possono, però, cogliere l’occasione per esportare modelli politici. Gli Imperi spagnoli e portoghesi esportarono il feudalesimo in America centrale e meridionale. L’Impero Britannico ebbe, come ogni colonizzatore, molte colpe; ma ha saputo esportare il sistema rappresentativo nell’America settentrionale, in Oceania e nell’India.

Nell’India indipendente esso regge a una condizione economico-sociale difficilissima, in un contesto pluriconfessionale che è un vero guazzabuglio spirituale. Anche in Sudafrica le forme del sistema rappresentativo hanno retto meglio che altrove, malgrado il contrasto raziale. Tutto questo, però, all’interno di Stati territoriali definiti. Oggi, viceversa, si è difronte alla nascita e crescita di soggetti transnazionali non pubblici, in assenza di un quadro planetario con istituzioni e autorità realmente cogenti. Il Fœdus Amphictionum di kantiana memoria. Questi soggetti transnazionali privati in diritto, ma con rilievo di fatto più che pubblico, perché hanno a che fare con la vita dei popoli, sfruttano le differenze degli ordinamenti nazionali: mettono la sede legale in uno Stato, la macchina organizzativa in un altro, aprono opifici ancora in terzi.

Fin quando vanno in cerca di una minore pressione fiscale, di amministrazioni pubbliche meno farraginose, di sistemi giudiziari più celeri, per sapere se certe partite debbano essere messe a bilancio in attivo od in passivo, transeat. Ma quando soggetti con sedi legali e amministrative in Stati socialmente decenti, che vietano il lavoro minorile, vanno ad aprire fabbriche o scavare miniere là dove legislazioni sociali inesistenti, od arcaiche, consentano loro di sfruttare un lavoro minorile sottopagato, sottraendo quei ragazzi alla opportuna educazione fisica e culturale, siamo in presenza dell’imperdonabile. È allora che Parlamenti nazionali, mezzi di comunicazione nazionali, partiti e organizzazioni di categoria nazionali, tutta la macchina consueta dello Stato libero, della democrazia rappresentativa, gira a vuoto. Cominciano a esistere, però, anche organizzazioni non governative transnazionali, nei più disparati settori. Comincino a “fare popolo”, a porsi come corpi intermedi dell’Umanità.

Se imprese transnazionali svuotano la democrazia rappresentativa nazionale, perché mai corpi intermedi transnazionali non potrebbero “fare popolo”? Gli ambientalisti qualcosa insegnano. Le Istituzioni, a cominciare da quelle dell’Unione europea, molto lentamente, seguono. Una buona fetta del diritto romano fu una transazione nella dialettica tra patrizi e plebei. Fin quando questa dialettica fu attiva vi furono martiri, come i Gracchi, e guerre civili, come tra Caio Mario e Lucio Cornelio Silla. Roma, tuttavia, fu grande, prospera e feconda. Quando il Popolo, già dei Quiriti e dei Romani, si accontentò delle elargizioni di frumento e di giochi nei circhi e corse di bighe negli stadi, fu la fine.

Aggiornato il 01 giugno 2022 alle ore 13:25