Dante: settecentesimo anniversario della morte

martedì 6 aprile 2021


La Divina Commedia

Un linguaggio di getto primario, sgraffiantissimo o lievissimo, personaggi scolpiti di netto, elevatissima, pugnace tensione morale, traversie nel viaggio dalle passioni più abiette dell’Inferno alle passioni moderate del Purgatorio, alle passioni veementi per nobili scopi nel Paradiso: tutto ciò che è umano è in Dante. Leggere Dante è vivere la vita in ogni diramazione: dall’amore che tanto è attraente da continuare nell’aldilà (Paolo e Francesca) all’eroico ed osteggiato Farinata degli Uberti allo scaltro e smodato di voglia conoscitiva Ulisse, all’infelicissimo Conte Ugolino, che vide morire i propri figli senza poter soccorrerli: figure dominanti nel cupo Inferno. La dolente Pia de’ Tolomei nelle tenui luci del Purgatorio, lo sfarzo luminoso del Paradiso, e infine l’immedesimazione in Dio. E Virgilio, Beatrice, le bestie simboliche che tentano di fermare il viaggio di Dante.  Ed angeli e Santi che lo rincuorano e l’incoraggiano.

Non c’è uomo che in qualunque campo abbia osato tanto giungendo a tanto come Dante Alighieri nella sua Commedia. L’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso stesso sono passaggi del suo cammino, ostacolatissimo, in quanto Dante l’inferno lo ha in sé: quelle tremende alterazioni davanti a lui, golosi, assassini, mentitori, falsificatori, traditori, violenti, lussuriosi sono le possibilità dell’uomo, ma anche di Dante, che le punisce come possibilità da sottomettere, le vive negli altri per condannarle in sé, e le soffre, le patisce, in quanto, essendo uomo, nulla gli è estraneo.

Il coinvolgimento nelle traversie dell’umano rende poesia la sua Commedia, diversamente Dante sarebbe soltanto uno scrittore morale: egli è molto di più, è un Poeta morale, sente, esprime e giudica. Ma giudica sentendo, ed è nel sentire che il giudizio diventa poesia. Sente, giudica e ascende. Ed il cammino bisogna fingere di considerarlo reale: macigni, fiumi, dirupi, guardiani, ostacoli, proprio perché è difficoltosissimo liberarsi dall’orrore umano. Dante congiunge l’ostacolo interno, il Male, con l’ostacolo esterno, il viaggio accidentato ed impedito. E, certo, in questo viaggio incontra le “figure” che di solito vengono considerate preminenti, ed invece sono secondarie al suo “viaggio” personale. Come il suo viandare quando, esule, escluso dalla sua città, percorre l’Italia da Comune a Comune, onorando i Signori che lo onoravano ospitandolo.

Nella metà dell’esistenza, trenta-trentacinque anni, allora, XIII/XIV secolo, Dante si ritrova in una selva oscura, tre bestie lo minacciano, Leone, Lonza, Lupa, mentre Egli credeva di superare la selva. È perduto? No, lo soccorre un’ombra d’uomo, gli suggerisce il cammino di salvezza e si svela: è Virgilio, inviato a Dante per intercessione di Beatrice che, in Paradiso, ha visto Dante intricato nella Selva dell’umano errare. Virgilio! Dante, assetato di paternità suprema, esemplare, al sapere che quell’ombra è Virgilio, si prosterna, e congiunge il mondo romano al mondo cattolico: il credentissimo Dante non rifiuta una minuzia del mondo romano antico e fa del mondo cattolico la prosecuzione di quello romano, sostituendone gli Dei. Come Roma fece del mondo greco: non sostituendo gli Dei. Atene, la prima Roma, la seconda Roma. E Virgilio, che è il congiungimento! Ora cammineranno insieme, Virgilio lo guiderà finché potrà, alle soglie del Paradiso.

L’Inferno è disposto secondo i “peccati”, a ciascun modo di “peccare”, una sede. Nel canto V fra i lussuriosi Dante incontra Paolo e Francesca, dannati non tanto per l'amore appassionato, piuttosto perché Francesca era coniugata. Ma l’amore prevale su tutto e va oltre la pena dell’Inferno. Meglio l’Inferno amando, che vivere non amando? Un vento rapina Francesca e i molti dannati, turbinandoli, Paolo è avvinto a Francesca. Ad entrambi sembra non importi l’Inferno, purché rimangano insieme! Nel canto X troviamo i non credenti, fra i quali Farinata degli Uberti. Superbo e desolato, esiliato da Firenze come ghibellino, per l’Imperatore, ed alleato ai Senesi sconfigge i fiorentini nella sanguinosissima battaglia di Montaperti (1260).

Tuttavia, Farinata si oppone alla distruzione di Firenze vinta. Con la successiva vittoria dei Guelfi, per il Pontefice, Farinata venne bandito dalla “patria” amatissima! Anche stavolta Dante vive in Farinata se stesso. Nel canto XV, in un suolo infiammato, una schiera di anime lo percorre. Una lo riconosce, il Padre, un Padre ancora, il Padre che insegnò a Dante come l’uomo si eterna, Brunetto Latini, un letterato maestro di Dante, il quale tolse al libro di Brunetto, il “Tresor”, molti versi, un uomo che Dante giustamente amò e stimò, e Brunetto a sua volta amò e stimò Dante e lo prefigurò quel che divenne, e di questo amore e stima è vivo il canto, come sempre appena Dante scorge “padri” o fraterni amici.

Nel canto XXVI Dante incontra Ulisse, l’uomo dell’avventura e della conoscenza, l’oltrepassatore di ogni limite, anche a costo della morte, il fondatore dell’Europa faustiana, conoscenza mai fede, mai fermarsi, mai considerarsi giunti ad un punto ultimo, avanti, l’uomo vale per quanto osa e tenta. Anche se va incontro alla rovina? Dante è tratto da questo Ulisse che dopo anni di guerra non smette di avventurarsi e si spinge con i pochi superstiti ancora a navigare, e supererà i luoghi fino a quel momento conosciuti, pervenendo in un mare aperto all'ignoto. Sarà l’ultima conoscenza! E se va incontro alla morte? Conoscerà la morte. E navigherà ancora, Ulisse? Dove? Nei Mari dell’Aldilà? Negli Oceani dell’infinito? O morirà nel troppo osare?

Nei canti XXXIII e XXXIV una plaga ghiaccia, uomini conficcati, a volto in giù o a capo indietro, e vediamo un Uomo-Ombra il quale rode la cervice ad un Uomo-Ombra, chiediamo che sia accaduto di tanto sotto-umano da suscitare odio ferigno da rodere addentando l’uomo un uomo. Risponde il divoratore. Chi non lo conosce? È il Conte Ugolino della Gherardesca, e il morsicato è l’Arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, che fece morire di fame Ugolino ed i suoi discendenti, per una sequela di tradimenti vicendevoli. Ritenuto un traditore, Ugolino venne chiuso con figli e nipoti per giorni e giorni, privi di cibo. Ugolino comprende la sorte, i “figli” ad un gesto disperato di lui, si offrono a pasto, ritenendo che Egli si addenti per fame... sì, fame, fame, fame, e in ultimo la morte per fame. È il canto più estremo del Poema: odio e vendetta al massimo.

Nel canto XXXIV troviamo i traditori per eccellenza, degli uomini e di Dio, Bruto, Cassio, Giuda e infine il traditore decisivo: Lucifero. È il Dante giustiziere, il Dante che si identifica con il rigore assoluto di Dio. I traditori del Sovrano mondano, Cesare, sono da pareggiare ai traditori di Cristo e di Dio? Cesare, l’Imperatore, è, nella sua sfera, non sottomesso ad altra autorità, è il Dio della Terra. Dante eredita totalmente la forma imperiale romana e vuole affiancarla, non sminuita, al Pontefice. La Chiesa non può, non deve sostituirsi o prevaricare o considerarsi maggiore dell'Impero. Roma Antica e Roma Cattolica. L'Impero e la Chiesa!

Il Purgatorio. Un uomo se ne sta chiuso in sé, Virgilio gli domanda la via, l’uomo vuol sapere chi è che chiede e basta che Virgilio dica “Mantova” e l’Ombra esplode, e con Virgilio sono abbracci, giacché entrambi mantovani. “Ahi serva Italia...”, una esclamazione celeberrima forse più che il “Va, pensiero”. Dante inveisce contro chi, “italiano”, combatte l’italiano, laddove l’Ombra, Sordello, all’udire il nome della sua città abbraccia, e poi onora, Virgilio. L’undicesimo canto del Purgatorio è tra i massimi dell’intero Poema. Dante giunge al luogo dove i superbi espiano la condanna e liberandosi salgono al Paradiso, vede i superbi gravati da macigni, loro che si innalzarono vengono abbassati, domati. È l’aspetto evidente, facile da cogliere. Ma il fondamento del canto è ben altro: i peccatori superbi hanno, in Purgatorio, compreso i limiti della gloria umana, e che nell’infinità del tempo non soltanto la grandezza è minima ma anche l’estrema gloria vanisce, e non solo l’estrema gloria degli uomini ma la Terra stessa è cosa da poco.

Sembra una anticipazione di Pascal, e di Leopardi, anche se Dante e Pascal vedono il nulla dell’uomo in confronto a Dio, e Leopardi vede il nulla dell’uomo in confronto al Nulla del Tutto. Ora Dante incontra Casella, amico nella vita. Casella canta una poesia di Dante, il quale incontra Pia de’ Tolomei, che passa come l’Ombra di se stessa, lieve, fugace, un sospiro di pena, reclusa, uccisa lentamente dal coniuge; poi Buonconte di Montefeltro, ghibellino, che rimpiange d’aver sbagliato via di fuga per salvarsi dai nemici guelfi, a Campaldino,1289, e sembra il rimpianto dei nostri errori. Ahimè, Virgilio lascia Dante, oltre il Purgatorio: a lui, pagàno, non è consentito il cammino verso il Paradiso. In vero neanche Inferno e Purgatorio gli dovevano essere consentiti, ma Dante è troppo antico “romano” per curarsi di ossequienze dommatiche. Per Dante il mondo cattolico continua non esclude il mondo “classico”.

Il Paradiso. Dopo il Padre, Virgilio, ecco la Madre, Beatrice, severa, amorevole, sempre attenta a che il “figlio” Dante si mostri degno del Paradiso, e Dante, infantilmente, si sforza per gradirle, si ritiene un uomo da niente rispetto all’Universo, ancor meno rispetto a Dio, è talmente superiore da comprendere la infimità umana commisurata all’infinito o a Dio. Come ogni mente educata alla Scolastica, Dante ha cercato di capire con la ragione il massimo possibile, ha risposto con osservanza della teologia cattolica alle interrogazioni dei Santi sulla Fede, ha sormontato i quesiti, è stato approvato perfino dalla severissima Beatrice, si è confortato incontrando un suo antenato, Cacciaguida, che si gloria del Paradiso. Cammina, ascende ancora alla perfezione non c'è limite come non c'è limite all’imperfezione: più si accosta all'Altissimo più si giudica trascurabile.

Nel XXXIII canto è al cospetto visivo estremo dell'essenza cattolica, la deve intendere fissandola: la Trinità, la natura umana e divina di Cristo, l’uomo e la Trinità. Il XXXIII canto del Paradiso conclude il viaggio di Dante. Pochi uomini hanno faticato quanto e come Dante. L’intero “Inferno”, l’intero “Purgatorio”, l’intero “Paradiso”, e tuttavia mantiene una insoddisfazione inguaribile, non gli basta aver sofferto con i dannati, espiato con i redenti del Purgatorio, inneggiato con gli eletti del Paradiso, non gli basta aver sofferto le passioni, umano come è, aver risposto agli interrogativi sulla fede, no, no, non gli basta, sente che la fede è un atto del sentire, un sentire che si rende volontà, vogliamo credere perché sentiamo di credere, edifichiamo sulla fede quanto non comprendiamo e non spieghiamo, la fede contiene in sé il dubbio sormontato con la fede.

Ma Dante tenta ancora e ancora e ancora e ancora di comprendere con la ragione, perché Dio, la Trinità siano conquiste certe, dimostrate non soltanto stabilite per fede. Si accanisce allo spasimo. Capire la Trinità, l’Incarnazione, la ragion d’essere dell’essere. È prossimo a Dio ma non capisce. Crede in Dio ma non oltrepassa il credere: Trinità, Incarnazione, Dio rivelatevi, fatevi comprendere! Perché, come mai sussistete? Niente, non comprende. Allora, basta, si lascia andare, sente di credere, vuole credere, ama credere, e si fa prendere dal Mistero di Dio, ed in Lui chiude la mente come un bambino che si addormenta sulla spalla del Padre! “All’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgea ‘l mio disio e ‘l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle”.


di Antonio Saccà