Siamo tolleranti, quindi censurate Dante!

Vano pensiero aduni/ la sconoscente vita che i fé sozzi/ ad ogne conoscenza or li fa bruni”: la pena del contrappasso, a cui per Dante soggiacciono gli avari ed i prodighi del VII canto dell’Inferno, ben si adatta a certi soggetti che avari d’onestà intellettuale e prodighi di sconcezze ideologiche si battono da anni, affinché proprio la Divina Commedia venga elisa dai programmi scolastici ed universitari in quanto, a detta loro, sarebbe antisemita, islamofoba e omofoba.

Nell’anno delle celebrazioni dantesche, infatti, non ci si può esimere dalla analisi di una certa diffusa prospettiva ideologica che si ripresenta sempre nel corso del tempo, lanciando i propri attacchi contro la figura, l’arte poetica e l’intelligenza di Dante Alighieri, poiché non servirebbe a nulla celebrare il genio di Dante un giorno e farlo bersaglio di inusitata ingenuità e vilipendio in tutto il resto del tempo. Già nel 2012 una organizzazione non governativa denominata “Gherush92-Comitato per i diritti umani”, operante quale consulente del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, ha avviato una campagna denominata “Via la Divina Commedia dalle scuole”. Ancora, nel 2019, nuove accuse sono state mosse contro il Poeta italico, identificato come una sorta di precursore degli attuali “hater”, e infine proprio nel giorno che l’Italia nel 2021 ha dedicato a Dante, una sfilza di fantasmagoriche accuse provenienti dalla Germania. Sembra, insomma, che quanti si fanno portatori della causa della tolleranza, si ritrovino presto o tardi a consumare il loro contrappasso, trovandosi essi stessi intrappolati tra le maglie della più cruda intolleranza.

Antinomia inevitabile, del resto, che già il filosofo Leszek Kolakowski aveva riscontrato nelle sue riflessioni sul problema della tolleranza, che così potrebbe essere riassunto: si deve essere tolleranti con gli intolleranti? È chiaro che se la risposta fosse affermativa, si diventerebbe intolleranti, dunque si commetterebbe la stessa azione di chi si biasima, compromettendo l’idea stessa di tolleranza; se la risposta fosse negativa, gli intolleranti alla lunga avrebbero la meglio e l’idea della tolleranza subirebbe comunque un esito infausto.

Che fare allora? È chiaro che se si rimane all’interno della dicotomia tolleranza/intolleranza, il problema potrebbe essere considerato sostanzialmente insolubile; ecco perché è opportuno assumere un’altra prospettiva, cioè quella della verità, posto che sia la tolleranza che l’intolleranza possono entrambe porsi contro la verità. Si pensi, per esempio, che il rituale dei sacrifici umani potrebbe essere legalizzato se si decidesse di essere tolleranti nei confronti dei culti che lo ammettono; così si potrebbe anche decidere che tutti i propri avversari politici vengano passati per le camere a gas, mostrandosi intolleranti verso di loro.

Sebbene le due ipotesi siano di segno opposto, cioè una orientata alla e dalla tolleranza, l’altra alla e dalla intolleranza, entrambe in sostanza violano il principio veritativo che fonda la realtà in genere e l’ontologia umana in particolare. I sacrifici umani dovrebbero essere vietati, come giustamente sono, non perché si è o non si è tolleranti, ma perché la loro pratica viola l’ontologia umana, cioè la verità dell’uomo, che è fondata sulla indisponibilità della vita, riflesso della indisponibilità della verità sull’essere. Coloro che dovessero praticare sacrifici umani con tutta evidenza, misconoscerebbero la verità dell’uomo e della sua dignità; proprio perché il Cristianesimo ha riaffermato questa verità, i sacrifici umani sono terminati, in quanto il Cristianesimo ha suggellato la indisponibilità della vita umana per mezzo della disponibilità per mezzo della crocifissione del figlio di Dio. Coloro che dovessero praticare sacrifici umani, negherebbero quindi la dignità dell’uomo come sancita dal Cristianesimo e la verità storica che il Cristianesimo ha sancito questa verità ontologica, come ricorda il laicissimo Tzvetan Todorov allorquando precisa, nei suoi scritti sulla conquista del Continente americano, “che i cristiani erano indignati per i casi di cannibalismo e che l’introduzione del Cristianesimo comporterà la loro abolizione”.

Analogamente, negare il carattere universale della Divina Commedia (Thomas Eliot ebbe a precisare che “la cultura di Dante non era quella di un Paese, ma dell’Europa intera”) per tentare di trascinarla prima nelle aporie dei discorsi vani sulla tolleranza, e poi nei roveti dei particolarismi ideologici del politicamente corretto, significa negare la verità della Divina Commedia e la verità della cultura occidentale medesima.

Si teme tanto la Divina Commedia, volendola in ogni modo silenziare, poiché essa, intrisa del pensiero classico e cristiano, insegna a distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bene dal male, ponendosi in netta rottura con quel qualunquismo culturale oggi così dominante, fondato sul pensiero debole del relativismo assoluto che inevitabilmente sfocia in puro nichilismo. A ragione, dunque, il poeta albanese Ismail Kadare ha osservato che “il nostro pianeta è troppo piccolo per permettersi il lusso di ignorare Dante Alighieri. Sfuggire a Dante è impossibile come sfuggire alla propria coscienza”.

Aggiornato il 26 marzo 2021 alle ore 10:13