Opinioni a confronto: la pandemia

Virus, che sei tu mai? Uno dei tanti mali che all’uomo dà Madre Natura. Ma stavolta ci hai presi tutti quanti, e più grande s’è fatta la paura. Questa è la Legge, e non ci sono santi che possano mutarla: la Natura è materia e i suoi guasti sono tanti, ma finirà pure questa sventura. L’uomo sapiente, che in Dio crede, è forte, e ben oltre egli va col suo pensiero. Certo, si duole per la malasorte di chi muore, ma il mondo è passeggero. È inutile forzar di Dio le porte: in grembo a Lui sta tutto il Gran Mistero.

“Caro Renato, questa pandemia diffusa dal Coronavirus, oltre che un contagio che coinvolge tutti i popoli (dal greco pan, “tutto”, e demos, “popolo”), ha generato un pandemonio, un vocabolo inventato da John Milton nel suo “Paradiso perduto”, chiamato anche la “Camera del Consiglio dei demoni” (ogni riferimento alla nostra Camera dei deputati è puramente casuale), ma che significa anche “associazione di persone che creano confusione, sono incompetenti, non seguono alcuna regola e perciò provocano reazioni e proteste piene di collera e di violenza”.

“In poche parole tu vuoi dire che i nostri governanti, ma non soltanto loro, non sono all’altezza delle capacità che dovrebbero avere, e che il pandemonio che hanno provocato non è pan per i loro denti e costituisce un ostacolo che non riescono a superare”.

Pan con la P maiuscola era il dio della natura. Oggi noi abbiamo un solo Dio, che però ha creato la Natura, quindi il Coronavirus risale a lui. Non dimentichiamo le dieci piaghe d’Egitto, che pur se non specificate come pandemie sono state delle epidemie e delle “piaghe mortali”, come si legge nel Vangelo di Luca e nell’Apocalisse, e sono dunque insite nella Creazione, nella Natura. E cosa sono? Una punizione, un castigo, un avvertimento? Dio, stando alla Genesi, indurisce l’animo del faraone affinché non lasci liberi gli ebrei per potergli mandare le piaghe e costringerlo così a liberarli. Ma è un controsenso: invece di indurirlo non poteva ammorbidirlo e convincerlo senza fare ricorso alle piaghe, uccidendo così tante persone?”.

“Quante pandemie ci sono state nel mondo?”.

“Sicuramente almeno una dozzina. In ordine cronologico le più importanti sono state: la peste di Atene, la peste di Giustiniano, la peste nera, la Spagnola, l’Asiatica, l’influenza di Hong Kong e la peste del Seicento, descritta da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi”, scoppiata a Milano sul finire del 1629 e che si protrasse per quasi tutto il 1630. Manzoni non lo dice ma secondo alcuni storici fu portata dalle pulci dei ratti che entrarono a Milano con un soldato italiano arruolato nell’esercito tedesco, che morì pochi giorni dopo e sul cui corpo si riscontrò la presenza di un bubbone sotto l’ascella. Il tribunale di Sanità ordinò di internare nel lazzaretto le persone che erano entrate in contatto con lui. Ciò rallentò ma non impedì la diffusione del morbo. L’epidemia crebbe lentamente, mentre il popolo continuava a ignorare la realtà attribuendo i decessi a febbri malariche o ad altre malattie e accusando il capo dei medici milanesi, Lodovico Settala, di spargere false notizie allarmistiche ‘e tutto per dar da fare ai medici’”.

“Ma va! Anche oggi, almeno qui in Italia, molti dicono che il Governo (la Camera del Consiglio dei demoni) esagera in quello che dice”.

Nella peste del Manzoni, voglio dire nella peste raccontata da lui, c’erano i cosiddetti untori sospettati di diffondere il contagio ungendo persone e cose con unguenti velenosi; contro di essi si scatenò l’ira del popolo e si diede anche corso a persecuzioni giudiziarie. Ci fu una vera e propria caccia all’untore: gente che compiva gesti innocui diventava sospetta e rischiava il linciaggio, come capitò a un vecchio per aver spolverato la panca del Duomo sulla quale voleva riposare. La stessa sorte toccò a tre giovani francesi, che avevano sfiorato con la mano la facciata del Duomo, solo per controllare se fosse davvero di marmo. Comunque, la peste di Atene descritta da Tucidide è la più impressionante. Te la leggo nella mia traduzione in versi che ho tratto dal De rerum natura di Lucrezio”.

Per prima cosa s’infiammava il capo

per il calore e gli occhi si spargevano

di un luccichìo rossastro. Internamente

la gola, diventata tutta nera,

sudava sangue, tanto che la voce

faticava a passare. Dalla lingua,

infiacchita dal male, appesantita

nei movimenti e ruvida, stillavano

gocce di sangue. Ad un certo momento,

quando la forza della malattia

per mezzo della gola aveva invaso

il petto ed era scesa dentro il cuore

vacillavano tutte le barriere.

Il fiato, fuoriuscendo dalla bocca

spargeva un puzzo simile al fetore

dei cadaveri sparsi e imputriditi.

Ai mali, intollerabili e continui,

si univano l’angoscia ed i lamenti

accompagnati da lunghi sospiri,

e un singhiozzare continuo e frequente

che spesso costringeva notte e giorno

a contrarre le membra e tutti i nervi.

Spesso accadeva che per l’eccessivo

ardore tutto il corpo andasse in fiamme,

talché le mani, intorpidite, avevano

un tiepido contatto con le cose

e tutto il corpo si faceva rosso

per le ulcere, stille di sudore

gocciolavano lungo il collo fradicio.

Il corpo dentro ardeva fino all’ossa,

tutto bruciava come brucia il ferro

nelle fornaci, sì che nulla c’era,

per quanto lieve e tenue, che potesse

giovare al corpo, che cercava il vento

o l’aria fresca, e perciò l’ammalato

immergeva le membra nelle gelide

acque di un fiume. Molti si gettavano

a capofitto nei pozzi profondi,

protendendo la bocca spalancata.

Una sete continua, inestinguibile,

li portava a quel gesto disperato.

La mente era sconvolta, tutta immersa

nella tristezza e in cupo terrore.

Con le ciglia aggrondate tutto il viso

era stravolto e truce, tormentate

anche le orecchie, piene di ronzii,

il respiro frequente, grosso e tratto

ad intervalli lunghi e con fatica,

sputi sottili e piccoli, rossastri,

cavati per le fauci da una tosse

aspra, arrochita. I nervi nelle mani

non cessavano mai d’irrigidirsi,

tutti gli arti tremavano e dai piedi

saliva su nel corpo un sudor freddo.

E poi, quando alla fine si appressava

il momento supremo, le narici

si affilavano, il naso sulla punta

si assottigliava, gli occhi s’infossavano

nelle tempie incavate, dura e gelida

si faceva la pelle della faccia,

la bocca aperta, e al suolo ormai giacevano

le membra irrigidite dalla morte.

(Lucrezio, De rerum natura, VI)

Aggiornato il 09 novembre 2020 alle ore 11:20