L’uomo senza meta

Chi è un “Uomo senza meta”? Vive in un luogo geografico reale o immaginario? Ha sepolte in sé quali verità, o false bugie? È uno, trino, o nessuno? Un ectoplasma emesso dai fiati di una figura mitica che poi, grazie alla parola dell’attore agente, la vis cognitiva e immaginifica dello spettatore tramuta da sostanza fumigante a esseri viventi in carne e ossa? Uscire da sé, dall’io della prima persona, per poi spostare il tempo nel soggetto stesso pensato in terza persona, come non fosse più lui ma solo il narratore di se stesso. Se tutto questo sembra illogico, duro da digerire, allora per ricredersi è sufficiente assistere allo spettacolo omonimo, in scena al teatro Argentina di Roma fino al 25 ottobre, per la regia di Giacomo Bisordi.

Innanzitutto, c’è Pietro (un bravo Francesco Colella), il protagonista. Poi, c’è il suo inseparabile fratello, assistente tecnico, psicoterapeuta e bodyguard, all’occorrenza. Terza a entrare in scena, una ex moglie, seguita da una figlia mai vista, per finire con una sorella mai incontrata. Pietro è il grande ricco che non passa per la cruna della sua eterna insoddisfazione. Gioca al monopoli del grande capitalista immobiliarista, che vende tutte le aziende di sua proprietà per fondare ex abrupto in un fiordo remoto una ville nouvelle o poubelle: case tutte uguali, a basso prezzo per residenze popolari, perché l’uomo di successo ha bisogno dell’uomo-massa senza carattere, ovvero di una corte che ogni giorno che passa lo rassicuri sul suo tempo futuro. Ma lo fa spinta da un interesse materiale, come i suoi congiunti più stretti sui quali piovono buste di colore scuro, contenenti abbondante denaro contante. Perché, poi, solo la miseria gode di rappresentazioni teatrali gratis, come può essere la Corte dei miracoli, con i suoi vicoli marciti e un’umanità che si divide i resti dei resti delle classi più agiate.

Per il ricco è tutto diverso. Lui si sente perennemente un Faust, perché sa, o è convinto di sapere, che ogni persona ha il suo prezzo. E quando affiorano in lui le debolezze di affetti troppo presto abbandonati, rinunciati o negati, l’animo e la mente suoi giocano all'elastico: "Ho bisogno di te. Vattene via, non ho alcun bisogno di te”. Allora: è vera la negazione o l’oggetto del desiderio sta nel denegato? Tutta la vita è un palcoscenico, sembra suggerirci il grande drammaturgo norvegese Arne Lygre, autore della pièce. Tant’è vero che gli attrezzisti di scena costruiscono dal vivo un soppalco provvisorio, assemblandolo come si farebbe con le tessere del Lego, che poi rimuovono letteralmente sotto i piedi degli attori rimasti in scena, sui quali piovono scatole denominate con il ruolo che i destinatari hanno nella storia. All’interno, ciascuno di loro trova abiti diversi da quelli che indossa, scelti dal fu Pietro che gioca al mago Merlino, per ricordare ai beneficiari della persona doppia che siamo. Desideriamo in pubblico ciò che non dà scandalo, ma nel privato, a occhi chiusi o aperti le passioni e i desideri hanno i rumori e i colori della nostra pancia. Così il fratello devoto sogna in segreto di trarre torbidi piaceri sessuali dall’ex moglie divorziata di Pietro, dilaniato per quella sua ex donna da una molla di odio-amore che ne rimarca l’assenza, ma al contempo ne rifiuta la presenza dopo che lei ha corrisposto al suo invito.

Poi, la questione della “roba” di verghiana memoria, a seguito della morte di Pietro: far scomparire le vestigia; distribuirle gratuitamente a una folla anonima, un oggetto a testa, ora irreggimentata, ora lasciata libera a se stessa di fare, per l’appunto, la sola funzione collettiva che conosce bene: quella di massa predatoria, in cui l’innocenza viene calpestata colpendo al cuore chi rimane in vita per piangere la morte di una figlia.

Si ride dal dolore, in fondo. Perché l’ospedale che ospita gli ultimi giorni di Pietro è stato da lui posizionato in cima alla collina, affinché il suo spirito si possa beare nella malattia e poi dall’aldilà delle opere terrene del defunto, assai male accompagnato dai suoi fantasmi reali nell’ultimo miglio che lo separa dal divino cancello dell’Ade.

Uomo senza meta” è il racconto di una fratellanza interrotta, segmentata, una cesura netta dal materno e poi, in fondo dal femmineo che fa paura, che va sotto-sotto punito per l’angoscia che genera. La donna, moglie, madre o sorella che sia, è sempre scacciata, anche quando è senza rifugio e chiede ospitalità ai suoi detrattori e aguzzini. La meta irraggiungibile è il potere senza potere, prerogativa dei santi e degli asceti, ma non degli uomini e delle donne normali di questo mondo.

Aggiornato il 22 ottobre 2020 alle ore 11:13