Caravaggio, il migrante involontario

lunedì 12 ottobre 2020


Mentre al Mart (Museo d’arte moderna e contemporanea) di Rovereto si è appena aperta la nuova mostra voluta da Vittorio Sgarbi con l’esposizione del Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, proveniente da Siracusa dopo un lungo corteo di interminabili e annose, inutili, discussioni sul suo trasporto, avvenuto senza alcun problema e dal titolo “Caravaggio. Il contemporaneo in dialogo con Burri e Pasolini”, è la volta dell’inserto Robinson, l’isola che c’è di Repubblica ora in edicola, a deliziarmi sulle incontenibili sciocchezze che ormai da molti anni – troppi – mi e ci tocca stare a sentire, e a leggere, sull’arte e soprattutto su quel Michelangelo Merisi da Caravaggio, che sembra ormai esser divenuto un artista per tutte le stagioni”, soggetto a qualsiasi delirio da parte di chiunque in quanto, estrapolandolo dal suo contesto storico, gli si attribuisce qualsiasi cosa facendogli dire anche le più improbabili. E se non mi trovo d’accordo – lo leggerà forse qualcuno nel mio saggio di prossima uscita proprio sul pittore milanese – sulla chiave di lettura pasoliniana di Caravaggio, almeno devo dire in tutta sincerità che essa ha un suo senso, da me non condiviso, ma ha un senso emozionale nella visione sgarbiana.

Al contrario non posso che prendere ogni distanza possibile da quanto scrive invece Teju Cole su Caravaggio, rapportando l’errare del pittore secentesco ai “migranti” contemporanei nel Mediterraneo. Mai due realtà furono più distanti e lontane. Mai due mondi, due modi di essere e di vivere ebbero meno in comune. Cosa unisca infatti i “migranti” che attraversano oggi sulle navi Ong il Mediterraneo, con un pittore fuggitivo, errante di gente in gente, con una taglia sulla testa, prima da Roma a Napoli, poi da Napoli a Malta e ancora da Malta in Sicilia, dalla Sicilia sino a morire di morte insoluta e misteriosa su un desolato bagnasciuga nei pressi di Porto Ercole, resta per chi scrive, incomprensibile.

L’“orrore” nel quale penetra il Merisi è quello oscuro dei bassifondi romani e soprattutto quello di una sua personale discesa agli inferi, di un cupio dissolvi, in una continua Nigredo che cercherebbe una pace e una salvezza che però non troverà. L’esilio voluto dei migranti odierni non è quello resosi necessario per l’artista maledetto in cerca di redenzione. Il fatto che Malta, Siracusa, Messina, Palermo e Napoli siano oggi come allora, luoghi di arrivo e di transito nel mare nostro, in quel Mediterraneo che unisce e divide, non è sufficiente a legare insieme la tragedia di un uomo che ha vissuto il proprio tempo e la propria arte, bruciando la propria candela da entrambi i lati, così da avere il doppio dello splendore ma metà della sua durata; con l’indubbio dramma – ma diversissimo nella sostanza – di genti spinte a spostarsi dai luoghi natii da ben altre motivazioni.

Un Caravaggio dunque emule ante litteram dei “migranti” è un fatto semplicemente risibile, in quanto significa non aver conoscenza della storia e dei tempi in cui visse il pittore. Significa che dopo le ipotesi – alle quali personalmente non do grande credito – di Caravaggio omosessuale, assassinato sul litorale toscano e tante altre, questo di Cole si rivela in tutta la sua infondatezza. Insomma ormai l’arte e gli artisti, quelli del passato beninteso, servono come base per trasmettere a un pubblico più o meno vasto, spesso mai sufficientemente colto, soltanto le proprie personali posizioni, che esse poi siano supportate da una vera conoscenza è secondario; ciò che conta e il veicolare un’ideologia più ancora che un’idea.

Chissà se Teju Cole immagina in quale strano mondo costituito da un’infinità di sottomondi abbia vissuto Caravaggio tra la fine del sedicesimo secolo e i primi anni del successivo, in una Roma che stava rapidamente passando tra ombre e luci violente, dai bagliori del Rinascimento, in un lungo crepuscolo che avrebbe visto sorgere il Barocco e le sue meraviglie ritorte verso un’età più cupa delle precedenti. Mi chiedo se Cole abbia mai indagato in quel labirinto di rapporti fatti di trappole e giochi mortali, di spie scatenate nelle corti di mezza Europa nel quale si muoveva l’agente segreto del Cardinal Del Monte, l’alchimista, chiamato Caravaggio. Il testo di Cole è pertanto un coacervo di scontate banalità riscontrabili su qualsiasi testo relativo al Merisi, non aggiunge nulla a quanto si trovi abitualmente in commercio, senza contare che ciò che oggi a noi resta dei luoghi dove visse Caravaggio, altro non è che un’immagine spesso sbiadita di frammenti, di sinopie di un tempo del quale ci è rimasto soltanto un profumo.

La Napoli del primo Seicento, la Roma di allora esiste in schegge di memoria che non possono essere ricondotte all’oggi se non con il rischio di una corruzione di quel milieu. Il “viaggio” di Cole è uno scontato baedeker, una guida turistica che resta in superficie secondo un linguaggio politicamente corretto così come vuole oggi l’attuale vulgata imperante, adatto certamente a un pubblico statunitense che si accontenta e perciò è felice. L’errare di Caravaggio di luogo in luogo non è mai casuale, ha protezioni, sa come e dove muoversi, ogni volta viene accolto da quella cometa ardente che fu come artista. Ma a differenza dei “migranti” c’è un demone che lo bracca, qualcosa o qualcuno lo insegue. Caravaggio è la propria ombra, quell’ombra che forse egli ha visto a Campo de’ Fiori quando arsero Giordano Bruno.

Ancora lo scrittore americano definisce Caravaggio un assassino – sì lo fu, soltanto nel caso di Ranuccio Tomassoni omicida fortuito per quelli che oggi verrebbero forse definiti in un commissariato di polizia “futili motivi” e che forse nascondevano ben altro di un semplice punto a pallacorda. Per ciò che noi sappiamo, egli uccise certo meno uomini di quanti ne mandò all’inferno Benvenuto Cellini un secolo prima di lui. Cole poi lo definisce “schiavista”: non sappiamo in base a quali fonti e forse lo confonde con Arthur Rimbaud.

Teju Cole nella sua sincera passione per Caravaggio confonde molte, troppe cose, ma noi vecchi europei, decadenti, onusti del tempo sublime che vide splendere corrusco un’età d’oro che non tornerà, lo perdoniamo, sinceramente, cristianamente, di quello stesso perdono che Michelangelo Merisi, fuggiasco, non fece in tempo ad avere.


di Dalmazio Frau