Interviste immaginarie: Mussolini

martedì 15 settembre 2020


“I più pericolosi nemici dell’Italia sono gl’Italiani. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. Gl’Italiani hanno voluto fare una Italia nuova, e loro rimanere gli Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio. Il primo bisogno d’Italia è che si formino italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani” (Massimo d’Azeglio).

Questa mattina, entrato nel mio studio, dopo aver salutato, agitando la mano come se fossero ancora vivi e vegeti, le foto dei miei fratelli spirituali sistemate negli scaffali della mia monumentale biblioteca, guardando quella del Duce, mi sono detto: perché non fare un’intervista anche a lui? Tanto più dopo il can-can che è scoppiato perché un’azienda nel veronese ha prodotto mascherine con il volto di Mussolini e la scritta “Camminare, costruire e, se necessario, combattere e vincere!”. C’è chi ha parlato di “apologia del fascismo”, chi lo ha definito “un fatto deplorevole da condannare con fermezza”, e via con la solita minestra. Miserie, meschinità. “Parole non ci appulcro”, diceva Dante: “In eterno verranno alli due cozzi: / questi resurgeranno dal sepulcro / col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi”.

Ho conosciuto Benito Mussolini di persona quando avevo dieci anni e gli ho stretto la mano. Era il 9 maggio del 1936. Vestito da balilla e inquadrato nel mio plotone, mi trovavo davanti allo storico Palazzo Venezia, in mezzo alla folla lì convenuta per “salutare, dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma”. Non era la prima volta che vedevo il Duce. La mia famiglia abitava in via Belluno, nei pressi di Villa Torlonia, perché mio padre (Console generale della Milizia, che conosceva Mussolini sin dalla fine della Grande Guerra), quando la mia famiglia si trasferì a Roma aveva cercato e trovato una casa proprio in quella zona. Perciò ogni mattina, nel recarmi a scuola, passavo davanti a Villa Torlonia e percorsa la breve strada in salita che da lì si diparte, giunto alla sommità, mi volgevo indietro e spesso lo intravedevo mentre cavalcava nel parco (“Spunta il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo”, scriveva Curzio Malaparte).

Ebbene in quel giorno “fatidico”, come tornai a casa, sotto l’effetto di quella emozione, scrissi una poesia sull’avvenimento, che mio padre consegnò personalmente al Duce, il quale volle conoscermi e dopo alcuni giorni mi trovai catapultato nella celebre Sala del Mappamondo.

Presa dunque in mano la foto di Mussolini, con la dedica che mi scrisse in quell’occasione, sono andato a sedermi, come al solito, sulla rossa poltrona reclinabile e, chiusi gli occhi, ho dato inizio a questo mio ennesimo colloquio ideale, con l’intento di raccontare non le vicende del Ventennio, che del resto ho già descritto e pubblicato in cinque o sei libri a partire dal 1947, ma solo la nascita del Fascismo, spiegandone il come ed il perché.

“Duce!”, ho esclamato, non appena l’ho visto, sospeso nel mio spazio interiore. “Dove siete? In Paradiso o all’Inferno? Vi hanno definito peggio del Diavolo, il ‘Male assoluto’, quando il papa, Pio XI, Vi definiva l’Uomo della Provvidenza, Giolitti esclamava ‘Mussolini ha tratto il paese dal fosso’ e Benedetto Croce scriveva: ‘Il Fascismo non è un’infatuazione, non è un giochetto, ha le lodi e il consenso di tutta la nazione, ha sciolto molti nodi, è l’amore del popolo, l’amore della patria italiana, una ricchezza per lo Stato, è il senso dell’onore, ha debellato l’antica fiacchezza’. Ma sono centinaia e centinaia le testimonianze positive su di Voi, di scrittori italiani e soprattutto stranieri. Non soltanto l’Italia ma il mondo intero vi osannò, molti addirittura vi ringraziarono perché eravate di esempio e di guida a tutte le nazioni”.

“Dopo la mia morte me ne hanno dette di tutti i colori, un repertorio di tanti aggettivi quanti nessuno ne ha mai avuti in tutta la storia: ‘Un pagliaccio’, ‘una caricatura grottesca degna d’essere derisa’, ‘un buffo nella parte di un sergente o caporale che mette paura alle reclute con la protrusione del mento, la tensione forzosa delle mascelle nonché il meccanismo dilatatorio delle sue pupille’, ‘un buffone da circo’, ‘un incapace che si sforzava invano di nascondere la sua viltà dietro la finta maschera del condottiero, un ‘falsario’, un ‘fallito, un ‘servo che nutriva un sentimento vendicativo d’inferiorità’, un ‘vassalluccio d’intrallazzo’, un ‘ladro di casseruole e pentole’, ‘uno spirito che fa ricorso alla brutalità per nascondere agli altri la mancanza di energia’, ‘un tiranno’, ‘un Maledito Merdonio dictatore impestatissimo. Ebbene, non me ne frega niente, come dicevo spesso, di quel che dice la gente. L’unica frase che non sono ancora riuscito a digerire è quella di un tizio della Sinistra, che si fregia anche del titolo di accademico, il quale in un dibattito televisivo con la mia nipote Alessandra ha detto che lo scempio di Piazzale Loreto è ‘comprensibile’, nel senso di ‘giustificabile’”.

“Ah, sì! E’ stato Andrea Romano! Oddìo, mi è scappato il nome! Speriamo che non ci scappi una querela!”.

“E’ stato il gesto più vergognoso della Storia, non solo di quella italiana. Forse il giovanotto che ha pronunciato quella frase, non sa, perché non c’era, tutto quello che hanno fatto al mio cadavere: un pugno di delinquenti, come al solito. Persino alcuni antifascisti sono rimasti indignati: Ferruccio Parri, uno dei capi più rispettati della Resistenza, ha definito quello scempio una ‘macelleria messicana’ e Sandro Pertini, l’incendiario socialista, esclamò: ‘La Resistenza è stata disonorata!’”.

“Ho letto tanti libri su di Voi. In uno scaffale apposito sull’architrave della porta del mio studio ce ne sono un centinaio. Ora vorrei sapere da Voi, che ormai siete libero da prevenzioni e vedete dall’alto e con distacco - sine ira et studio - questa ‘aiuola che ci fa tanto feroci’, come e perché è nato il Fascismo, che, fra parentesi, tutti, compresa l’Accademia della Crusca, scrivono con la effe minuscola, quando i movimenti, letterari, artistici, politici e altri, vogliono l’iniziale maiuscola”.

“Alla fine della Grande Guerra l’Europa si trovò di fronte ad una crisi senza precedenti, ch’era poi l’effetto di una situazione già presente negli ultimi anni dell’Ottocento e ch’era stata appunto il motivo di quel conflitto. In Italia la vittoria ‘mutilata’ aveva diffuso un senso di risentimento e di sconforto, a cui si aggiungevano il malumore e il disagio dei reduci, che non solo faticavano a trovare un lavoro ma erano bersaglio dei ‘sovversivi’, che gli strappavano dal petto le medaglie, li inseguivano per le strade, li prendevano a randellate: sono stati loro a inventare il manganello. Ma non erano solo gli atti violenza, le stragi, gl’incendi delle fabbriche, gli scioperi, gli attentati e così via, il fatto è che miravano a consegnare l’Italia alla Russia istaurando la dittatura. ‘Farèm come la Russia, farèm come Lenìn!’, gridavano per le strade, agitando le loro bandiere. Fu soprattutto per questo motivo che fondai i Fasci Italiani di Combattimento, chiamati ‘fasci’ in quanto simbolo di unione e di unità fra tutti gl’Italiani: il mio primo intento, infatti, era quello di unire e pacificare gli animi di tutti”.

“Renzo De Felice e Giampaolo Pansa hanno scritto che ‘il nero è nato dal rosso’, non viceversa, e per questo sono stati scomunicati. Chissà cosa dirà la Sinistra quando leggerà il mio poemetto Nave senza nocchiere in gran tempesta, pubblicato da Herald Editore!”.

“Possono dire quello che vogliono del Fascismo, ma nessuno può negare, con prove alla mano, che ad accendere la miccia sono stati i socialisti e i comunisti. Lo dicevano e lo scrivevano persino illustri antifascisti, come Salvemini, De Gasperi e Benedetto Croce, il quale già nel 1907 definiva il socialismo una ‘vera e propria malattia morale che conduce gli operai della grande industria del vuoto a propugnare ideali di dominazione e devastazione, senza sapere con sicurezza contro chi e perché e con quali mezzi e quali fini muovere tanto fracasso’. Vogliamo dunque dare almeno una giustificazione al sorgere del Fascismo in quel caos? Poi, dopo questa premessa, che ne parlino pure, i politici e gl’intellettuali, voltagabbana, o canguri giganti, come li chiamavo io dopo il ‘43, ma questa è la verità. Io non voglio fare polemiche, perché riconosco di avere avuto in certi casi i miei torti e compiuto degli errori, ma ne hanno fatti anche Cesare e Napoleone: il potere logora chi lo esercita, specialmente per tanti anni. Voglio solo dire che il Fascismo non si spiega se non si va alla sua fonte, ai motivi, vicini e lontani, che l’hanno generato. Se ogni fatto dev’essere inquadrato nel contesto, perché i fatti, come già dicevano Seneca e Marco Aurelio, sono tutti legati fra loro, ciò vale anche per il Fascismo, se si pensa che tale fenomeno non ha interessato solo l’Italia, ma si è diffuso dovunque, conquistando l’animo e la mente di grandi personaggi di ogni paese. La gente, tanto più dopo una guerra che era costata una quantità notevole di vite, di sofferenze e di sacrifici, sentiva il bisogno di una nuova visione del mondo, di valori, di princìpi, e anche di miti e di riti. E io avevo capito che come il popolo sul piano religioso amava le processioni, le cerimonie e i simboli sacri, così aveva bisogno di rituali. Da qui il richiamo alla Roma antica, la sacralizzazione del Fascismo, visto come una vera e propria religione, la religione della patria, la religione del dovere, la religione del lavoro, la religione della famiglia, del bello, dell’arte e così via”.

“Tutto ciò che oggi non c’è più!”.

“E non era questa un’idea nobile e alta? Dove sta, allora, il peccato originale del Fascismo? Il Fascismo, come tutti i movimenti, può essere criticato per alcuni fatti che sono accaduti in seguito ma non per la sua nascita. Sono stato definito l’Uomo della Provvidenza e alla fine, a ragione o a torto non m’importa, m’hanno gettato addosso la croce. Come a Cristo. Anzi, peggio: mi hanno impiccato a testa in giù perché la gente potesse sputarmi in faccia. Ho commesso degli errori, e va bene, e quale capo di Stato, quale Governo non ne ha commessi. E Stalin? Ottantamilioni di morti: altro che l’Olocausto! Eppure l’hanno osannato, e molti l’osannano ancora. I partigiani ammazzavano i loro stessi compagni per poter riversare la colpa sui fascisti, facevano le spie agli americani indicandogli gli obiettivi sui cui le loro fortezze volanti potevano gettare le bombe. Persino sulle scuole”.

“Non si può tagliare il filo della Storia in tanti pezzettini, estrapolando i fatti che fanno comodo e analizzarli e giudicarli singolarmente e separatamente, ciascuno per conto suo, trascurandone le relazioni, le cause e gli effetti. E’ come se di fronte ad una folla pacifica e composta si fotografasse o si filmasse il volto minaccioso di uno scalmanato o magari una mano che impugna una pistola e poi si attribuisse quel gesto alla folla intera (come si fa coi fotomontaggi costruiti a bella posta). Ora, come fa uno storico, dopo avere analizzato e illustrato una tale situazione, dopo aver denunciato e deplorato ‘la generale inquietudine’, il ‘malessere’, lo ‘spettacolo di debolezza offerto dai vari Governi’, ‘la minacciosa longa manus della Russia bolscevica’, e così via, come fa a stupirsi, a lamentarsi e a indignarsi perché ‘nel ‘22 morì la democrazia e nacque la dittatura’? E se avessero vinto i comunisti cosa sarebbe accaduto?”.

“Anche Togliatti riconobbe che io non avevo alcuna intenzione di instaurare la dittatura: ‘E’ un grave errore’, disse, ‘credere che il Fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura’. E comunque, dopo la svolta autoritaria, che la maggioranza degli Italiani giudicò opportuna e necessaria, La Civiltà Cattolica scrisse: ‘Se al disordine segue qualche bene, come uno stabile ordinamento, la Chiesa non manca di riconoscerlo e, al bisogno, di tutelarlo e promuoverlo in ciò che lodevole e sano’. Analogo fu il consenso di molti intellettuali stranieri, soprattutto inglesi, secondo i quali la democrazia parlamentare era una forma di governo non adatta a un paese come l’Italia. Stendhal nell’Ottocento disse: ‘Per gl’Italiani ci vorrebbe un Napoleone, ma dove si va a prenderlo?’”.

“Giorgio Albertazzi, che fu con me e con Castellacci alla ex Accademia femminile di Orvieto su il Giornale del 30 luglio del 2014 scrisse: ‘Essere fascista significava essere italiano. Il mondo era quello. Per questo scelsi Salò’. Nessuno allora poteva pensar male di un movimento che si ispirava a ideali così alti, tanto che persino fuori d’Italia furono fondati club, circoli, associazioni, a cui aderirono molti indipendentemente dalla loro ideologia politica, e non pochi stranieri assunsero modi e atteggiamenti ‘alla fascista’: ‘à la fascistì’, dicevano i Francesi. Il popolo italiano doveva scontare secoli di decadenza morale, spirituale e politica, e perciò aveva bisogno di una guida capace di risollevare le sorti del ‘bel paese’. Il quale, ormai, sembra proprio arrivato al capolinea”.

 

Sono, a contarle, almeno un centinaio

le cose buone fatte dal Fascismo.

L’Opera nazionale per le madri

e per l’infanzia, la costituzione

 

delle colonie per i bisognosi,

l’Inps, Istituto della Previdenza,

l’Ente per gl’Infortuni sul Lavoro,

la riforma Gentile della Scuola,

 

le Case Popolari, l’assistenza

ospedaliera ai poveri (gratuita),

l’istituzione del Dopolavoro,

la lotta contro l’analfabetismo,

 

la nascita di quindici città,

fra cui Littoria, Sabaudia, Pomezia,

Guidonia, Aprilia, Carbonia, Segezia,

Arsia, Pozzo Littorio e sessantotto

 

borghi rurali. Solo a Roma nacquero

la bella Via della Conciliazione,

la Farnesina, lo Stadio dei Marmi,

il quartiere dell’Eur, Cinecittà,

 

l’odierna Rai, l’Accademia d’Italia,

e la Mostra del Cinema a Venezia.

Nel Millenovecentoventinove

con la crisi scoppiata in tutto il mondo

 

furono spesi parecchi miliardi

per l’attuazione di lavori pubblici,

che diedero lavoro agl’Italiani,

e non solo in Italia, in Etiopia:

 

cinquemila chilometri di strade

asfaltate, più millequattrocento

di piste camionabili, villaggi,

alberghi, fognature, luce elettrica,

 

scuole, stazioni radio, ristoranti,

telegrafo, telefono, aeroporti,

ospizi di ricovero per vecchi,

ospedali materni e così via.


di Mario Scaffidi Abbate