È uscito da qualche giorno nelle librerie, per la collana degli Oscar Mondadori (330 pagine, 16 euro), l'aggiornamento della biografia "Trump, vita di un presidente contro tutti", scritta dal Direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano e già pubblicata con successo di vendite nella collana "Le scie". Rozzo, incolto, arrogante, sessista: per la stragrande maggioranza dei commentatori Donald Trump è il concentrato del peggio e la sua presidenza deve finire. Non c'è dubbio che gli anni del primo mandato della presidenza Trump siano stati vissuti sulle montagne russe, almeno nella percezione filtrata dai grandi media americani e internazionali. Sin dal giorno della sua inattesa elezione, per alcuni un autentico shock, il tycoon newyorkese è stato ferocemente contrastato, messo spesso alla berlina, costretto ad uno stato di rissa permanente, condizione che il diretto interessato non disdegna. Da una parte una rappresentazione di una Casa Bianca in preda al caos permanente e all'improvvisazione, dove il governo della superpotenza del pianeta sarebbe affidato a decisioni istintive e urlate, poco ragionate. Dall'altra, una realtà assolutamente diversa, che parla con i dati estremamente positivi dell'economia, segnati da una crescita costante, a livelli impensabili per un sistema produttivo maturo, disoccupazione quasi inesistente, i record degli indici di Wall Street, una riforma fiscale che ha stimolato gli investimenti, dinamismo. Pubblichiamo, con il permesso dell'Autore, l'introduzione al libro.

Quando, il 16 giugno 2015, il «palazzinaro» Donald Trump scende da una delle lussuose e dorate scale mobili della Trump Tower e raggiunge il podio, in un ambiente che sembra più congenia- le al lancio di una nuova linea cosmetica di creme che all’an- nuncio della candidatura a presidente degli Stati Uniti, i media mainstream liquidano l’evento come l’ennesima trovata dell’eccentrico tycoon, che da anni fa del suo nome un brand commerciale e quindi è alla continua ricerca di pubblicità. Non prendono neanche vagamente in considerazione la possibilità di una sua vittoria. Eppure, sta per iniziare un’incredibile cavalcata elettorale che lo porterà alla Casa Bianca.

Il primo atteggiamento è di sufficienza e derisione. Poi, man mano che il fenomeno Trump si rivela numericamente consisten- te il tono cambia, si fa aggressivo, spesso denigratorio. Il columnist del «New York Times» Frank Bruni lo definisce il Berlusconi americano, dimenticando che nella recente storia delle elezioni presidenziali c’è già stato un precedente, quello del miliardario texano Ross Perot.

Rozzo, incolto, arrogante, sessista, per la stragrande maggioranza dei commentatori, Trump è il concentrato del peggio. Eppure, per certi versi, è proprio lui a interpretare meglio di chiunque altro l’essenza del sogno americano. Nato nel Queens, il più popolato dei boroughs di New York, da padre di origine tedesca e madre scozzese, ha saputo costruire un impero economico che la rivista «Forbes» stima in quattro miliardi di dollari e che spazia dall’immobiliare ai casinò di Atlantic City, agli alberghi di Las Vegas e ad alcuni format televisivi di successo, a cominciare dal reality show «The Apprentice».

Trump è certamente un personaggio complesso, un Giano bifronte. Non proprio un esempio di stile, si dirà. Eppure, nella sua biografia si possono rintracciare elementi sorprendenti che non sono stati quasi mai raccontati, forse perché non coerenti rispetto all’abito che gli era stato cucito addosso. Adolescente indisciplinato, quasi un teppista, Donald ha poi studiato, in maniera proficua, da primo della classe, alla NYMA (New York Military Academy), uno dei più rigorosi licei militari americani, e ha frequentato la Wharton School dell’Università della Pennsylvania, un ateneo fortemente orientato agli studi economici e ritenuto fra i migliori al mondo in questo ambito. Con un fiuto animalesco per gli affari, si rivela spregiudicato, ai limiti delle regole, ma capace di portare a termine progetti ambiziosi; diciottenne, mentre nei weekend i coetanei si divertono, lui passa ore a scorrere i bollettini delle aste immobiliari, opziona l’acquisto con una piccola caparra e poi rivende immediatamente, realizzando cospicui surplus. In cuor suo si è preparato almeno per trent’anni all’appuntamento con la politica, ha scritto libri, alcuni dei quali hanno venduto centinaia di migliaia di copie.

Vincerà le elezioni facendo l’esatto contrario di quello che impongono i vademecum del politicamente corretto, che sempre di più condizionano le nostre vite. Mentre i candidati erano alla ricerca del sostegno dell’establishment, lui massacrava i poteri forti, dicendo le cose che le donne e gli uomini della strada pen- sano ma non hanno la possibilità di dire. Ogni tentativo di spie- gare l’ascesa politica di Donald Trump con le lenti convenzionali e le vecchie categorie, insomma, è destinato a essere insufficiente. Solo un racconto meticoloso e rigoroso, scevro di inutili pregiudizi, aderente alla verità e impietoso nel racconto dei fatti, può farci comprendere perché Trump sia diventato presidente degli Stati Uniti d’America. I media, tutti impregnati della moral righteousness, un’autocelebrata superiorità morale, e quasi tutti proni nel racconto delle virtù di Hillary Clinton, non sono stati capaci di intuire quello che stava accadendo. Hanno ristretto il loro campo di azione alla visuale delle élite di Manhattan e San Francisco, dimenticando che l’America è molto più vasta e problematica.

L’ex presidente Bill Clinton, anche lui personaggio empatico, che, paradossalmente, ha tratti simili a quelli di Trump, all’inizio della cavalcata dichiara: «Attenti a sottovalutare uno come Donald Trump». Il colorito regista Michael Moore, un anti-trumpista non sospettabile della minima simpatia, dice: «L’elezione di Trump sarà il più grande vaffanculo della storia umana. Sarà lui a vincere». Sulla rivista «Rolling Stone» spiega che l’élite americana è così distante dai problemi da non capire la realtà: «Conosco molta gente in Michigan che intende votare Trump anche se non concorda con lui. Donald Trump è venuto al “Detroit Economic Club” e, davanti ai capi della Ford Motor, ha detto che se intendono chiudere le fabbriche di Detroit e trasferirle in Messico, lui è pronto a imporre una tariffa del 35 per cento su quelle auto da reimportare e quindi nessuno le avrebbe comprate. È stata una cosa impressionante, nessun politico, democratico o repubblica- no, ha mai sfidato così i dirigenti».

A New York, nel quartier generale alla Trump Tower, uno dei consulenti di Donald scrive su una lavagna: «Lasciate che Trump faccia il Trump». Che significa: lasciategli fare le sue gaffe, non provate a imbrigliarlo nelle reti di una comunicazione fredda e ipocrita. E così è stato. Per mesi, ha beneficiato della pubblicità gratuita che TV e social network gli garantivano con i loro con- tinui attacchi, tenendo i riflettori sempre accesi su di lui, mentre Hillary Clinton, per non dire degli altri candidati repubblicani, restava nell’ombra, gettando al vento milioni di dollari in aridi spot elettorali.

Trump non è un raffinato cultore della «rivoluzione conservatrice», ma sa parlare alla pancia dell’America. Augusto Del Noce coniò la definizione di «transpolitico» per indicare una dimensione profonda che sedimenta nella coscienza dei popoli, un fiume carsico che scorre all’interno delle società. Chi ha analizzato la comunicazione politica di Trump ha poi voluto ridurre tutto, con giudizi lapidari, alla denuncia della «maleducazione da cortile, turpiloquio da Twitter, la voglia di sparare agli immigrati, l’ammiccamento omofobo, la battuta salace e sessista».

Quella di The Donald, invece, è stata la vittoria della «rivoluzione silenziosa», dell’America profonda, ma anche di una ritrovata consapevolezza della necessità di non dover lasciare il proprio destino nelle mani di élite che si dichiarano di sinistra ma sono in realtà violente e classiste. «Le priorità, le convinzioni dei sostenitori di Trump, si sono rivelate più potenti degli obietti- vi programmatici, della fattibilità, e persino della coerenza delle loro posizioni concettuali.»

Il filosofo russo Aleksandr Dugin ha osservato che i «sosteni- tori di Trump sono come i personaggi del romanzo di Ken Kesey (Qualcuno volò sul nido del cuculo), pazienti di una clinica psichiatrica governata dalla capoinfermiera Mildred Ratched, “Grande Infermiera” e “Grande Madre”. Essi vedono che l’élite globalista di Wall Street, i maniaci del sistema della Federal Reserve e gli ultraliberali stanno privando gli americani comuni di ciò che è più importante per loro: la propria identità».

Da un fronte critico, Colin Crouch, politologo britannico che nel saggio Postdemocrazia analizza lo strapotere delle élite globali, ha dichiarato: «Ciò cui assistiamo prende la forma di una rivolta delle emozioni. ... Finalmente è arrivata una rivolta contro la disuguaglianza ma prende una forma politica di destra condizionata dal razzismo».

Molte analisi non sono in grado di cogliere il cortocircuito che si è determinato nelle democrazie occidentali, fra democrazia rappresentativa e democrazia organica, il punto su cui Alain de Benoist coglie la crisi della modernità. Democrazia senza sovranità del popolo, dove la rappresentanza diventa solo un dato formale, perché priva di un’anima culturale e religiosa.

La vittoria di Trump, la Brexit del 23 giugno 2016 e la vittoria del ”no” al referendum italiano sulla riforma costituzionale compongono una sorta di triade hegeliana di riappropriazione della sovranità. Tre colpi durissimi alle ambizioni globaliste della finanza internazionale, alla cultura cosmopolita della sinistra, al pensiero unico. Quando Trump ha tuonato nei suoi comizi contro il «politicamente corretto», si è fatto interprete – lo ribadiamo – di quello che milioni di persone pensano e spesso non hanno il coraggio di dire: qualcuno vuole limitare la nostra libertà in un reticolo di parole prescritte, consentite e vietate. Nietzsche parlerebbe di «nichilismo attivo», un manto pervasivo di ipocrisie collettive e retoriche permanenti.

C’è una parola «malfamata», che circola sui giornali e nel lessico politico, ed è quella di populismo. Sta diventando una sigla con la quale si connotano fenomeni politici molto diversi fra loro. La crisi economica dell’Occidente, la perdita di quelle certezze che hanno accompagnato oltre mezzo secolo di benessere economico e sociale, hanno fatto di nuovo del populismo un protagonista, un attore in campo della politica europea, e non solo, se pensiamo a Trump. Un fantasma che riappare come la risposta più semplice alle angosce della globalizzazione.

Nella pubblicistica politica il termine populismo esprime tout court un connotato negativo, assimilato all’estremismo e alla de- magogia. A priori c’è un giudizio di valore che ne coglie il trat- to qualunquistico, sottolineandone quella prassi che punta alla banalizzazione estrema delle questioni al fine di riscuotere faci- li approvazioni. C’è un populismo di destra, in Francia, in Gran Bretagna, nell’Est europeo; c’è un populismo di sinistra, in Spagna e Grecia. Un atteggiamento che, a sentire i critici, si traduce nella pura protesta, nel risentimento più viscerale, nell’aggressività. E oggi, il populismo sembra aver trovato un nuovo fertile terreno nella piazza telematica della Rete, dove la sintesi estrema riassume i concetti in nette e ultimative parole d’ordine.

Tuttavia, la liquidazione del populismo secondo questa interpretazione prevalente e «di moda», non risolve il problema. In particolare, lascia troppo sullo sfondo il senso autentico delle dinamiche in atto e, come se non bastasse, chi se ne fa promotore si pone con un atteggiamento di spocchiosa sufficienza, non meno faziosa di quella dei populisti.

Se quest’ultimi possono risultare grossolani, gli antipopulisti – si pensi alla gauche caviar, e a tutto il mondo radical chic – sono privi di un bagaglio di conoscenze adeguate e procedono per categorie di pensiero ipocrite e consunte, mai sottoposte ad alcun vaglio critico.

Bisogna ricordare che la formula «radical chic» fu coniata dal- lo scrittore americano Tom Wolfe, in un famoso articolo, appar- so nel 1970 sul «New York Magazine» e riferito ai salotti di Park Avenue dove i miliardari, per moda ed esibizionismo, ostentavano atteggiamenti di sinistra. «Quando sento qualcuno evocare il populismo» ha osservato lo scrittore Michel Houellebecq, «so che in fondo quella persona è contraria alla democrazia. La parola populismo è stata inventata, o meglio recuperata, perché non è più possibile accusare di fascismo certi partiti, sarebbe troppo falso. Allora è stato trovato un nuovo insulto, populista.» Gli eredi di quell’atteggiamento che oggi hanno assunto le vesti dei paladini del «politicamente corretto», del «pensiero gender», hanno rispolverato gli stessi toni di supponenza nei confronti di Donald Trump, l’uomo nero del momento, colui il quale non sa stare a tavola, il maleducato politico. Mentre macinava consensi in campagna elettorale, loro si scandalizzavano.

«La sinistra, oggi spazio politico-culturale di riferimento delle classi agiate newyorkesi e californiane» scrive Paolo Borgogno- ne, «ha esaurito la funzione di rappresentante dei ceti proletari nel momento in cui questi ultimi, ossia la classe operaia autoctona, da Pittsburgh alla Pennsylvania, passando per l’intera “Cintura della ruggine” (Rust Belt), la regione un tempo industriale comprendente tutto il Nordest degli Stati Uniti, hanno votato compattamente per Trump.»

Il populismo si radica certamente nelle paure e nelle incer- tezze, ma trova forza anche nella distanza del potere, nell’im- possibilità che il cittadino comune ha di accedervi e dialogarci.

Michael Novak individua per gli Stati occidentali due sfide terri- bili: l’economia del benessere, insidiata dalla globalizzazione; la tenuta democratica interna, minacciata dalla crisi. Il rapporto fra globalizzazione e democrazia sta diventando uno snodo sempre più delicato del nostro tempo, fonte di tensioni sociali, culturali, economiche. La globalizzazione per alcuni esclude, limita, crea le masse dei non integrati e soprattutto rende opaco il potere.

«Le decisioni stanno migrando dallo spazio tradizionale della democrazia», è questo il monito che all’inizio del nostro secolo è stato lanciato da Ralf Dahrendorf, aggiungendo che la democrazia non è applicabile «al di fuori dello Stato-Nazione, ai molti livelli internazionali o multinazionali in cui si forma oggi la decisione politica». Da una prospettiva diversa, un altro autore britannico, il filosofo Roger Scruton, ha scritto che le «democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale», perché laddove «l’esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire». Lo studioso aggiunge, con estrema chiarezza: «I recenti tentativi di trascendere dallo Stato nazionale e trasformarlo in qualche tipo di ordinamento transnazionale, si sono conclusi spesso in dittature totalitarie». Il politologo statunitense Robert Kagan, esponente di punta del pensiero neocon, che però si era espresso a favore di Hillary Clinton, parla di «paradiso poststorico», che mostra evidenti limiti.

Fino a qualche anno fa il destino globale, il dissolvimento nella grande liquidità, la costruzione del nuovo ordine mondiale unipolare (One World), sembrava segnato, ineluttabile. Ora, forse, le turbolenze interne di molte democrazie, che pure sono additate come modello di valori, sembrano rimettere in discussione la «fine della storia» annunciata qualche tempo fa.

Trump non è un repubblicano classico, è nell’intimo un newyorkese, quindi molto lontano da quella visione biblica della vita tipica delle roccaforti del Grand Old Party (GOP). Non è un texano con gli stivali e la pistola. A lungo è stato democratico, poi indipendente, quindi repubblicano. Sull’aborto ha posizioni non chiare, equivoco che gli viene contestato in campagna elettorale. Come negli affari, ha fiuto e ha compre so che i repubblicani avevano maturato un vasto consenso nella società americana ma mancavano di un leader. In questo, sì, è simile a Silvio Berlusconi, che nel 1993, pur essendo stato vicino al PSI di Craxi, dette una bandiera ai moderati, inventando il centrodestra italiano.

La grave recessione economica nata dalla crisi finanziaria dei subprime ha lasciato sul campo, negli Stati Uniti, come nel resto del mondo occidentale, molte vittime. Tra il 2007 e il 2009, gli USA hanno raddoppiato il tasso di disoccupazione, tantissime persone hanno perso la casa, migliaia di imprese hanno chiuso i loro stabilimenti per delocalizzare all’estero, le amministrazioni pubbliche hanno diminuito o cancellato i già scarsi servizi sociali. A pagare il conto più salato è stata la classe media, deva- stata non solo economicamente, ma nei suoi antichi valori del risparmio e della famiglia. Per la prima volta, le generazioni dei figli sanno che staranno peggio dei loro padri, perché la speranza del futuro è stata limitata, se non uccisa del tutto. Nella pancia di queste persone c’è molta rabbia e voglia di reagire.

All’atto della sua discesa in campo, Trump conta su una notorietà di gran lunga superiore a quella degli altri candidati repubblicani. Oltre a essere un imprenditore, è un noto volto televisivo e alcune sue vicende private hanno alimentato, per anni, quel gossip che piace tanto al pubblico nazionalpopolare. Inoltre, sa catturare l’attenzione, è un combattente da reality show. Andrea Mancia e Simone Bressan, due studiosi di politica americana, hanno ben descritto le radici della vittoria di Trump, prendendo le mosse dal saggio di George H. Nash, The Conservative Intellectual Movement in America since 1945, ricordano i tre ceppi della destra americana. I «liberali classici» o libertarian (Albert Jay Nock, Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek) che si oppongono a uno Stato in continua espansione che minaccia le libertà individuali; i «nuovi conservatori» o tradizionalisti alla Richard M. Weaver, Peter Viereck, Russell Kirk e Robert Nisbet, che in avversione alla società senza radici predicano il ritorno alla religiosità e producono una critica serrata al relati- vismo; infine gli ex radical, provenienti da sinistra, che sostengono l’occidentalismo.

Mancia e Bressan spiegano che la vera svolta per il movimen- to conservatore americano avviene con la candidatura nel 1964 di Barry Goldwater che, pur risultando sconfitto dal democratico Lyndon Johnson, con la sua piattaforma programmatica pone le basi per il riscatto repubblicano. Non a caso, molti osservatori concordano nel ritenere che le vittorie elettorali di Reagan e Bush affondino le proprie radici nel progetto di Goldwater.

I giovani repubblicani degli anni Sessanta hanno in testa dei cappellini sui quali è impressa una sigla, AUH2O, un gioco di parole inventato dalla propaganda repubblicana: la formula si riferisce infatti ai simboli degli elementi chimici dell’oro e dell’acqua, richiamati dal cognome del candidato: Gold (oro), water (acqua). Goldwater è il candidato che ridà orgoglio al Grand Old Party, infiammando la platea della convention di San Francisco. È lui che sfida il presidente Johnson, il texano succeduto a John F. Kennedy, dopo l’assassinio a Dallas. Il merito del senatore dell’Arizona è quello di svecchiare programmi e visione dei repubblicani, spostandosi dall’anticomunismo becero e demonizzante del senatore Joseph McCarthy a contenuti positivi, basati su una visione filosofica e ispirata del destino americano. Quando grida «l’estremismo in difesa della libertà non è un vizio e la moderazione nel perseguimento della giustizia non è una virtù», la platea dei delegati di San Francisco lo applaude convinta.

Il senatore Goldwater arriva alla nomination dopo il grande successo di un suo libro del 1960, The Conscience of a Conservative (La coscienza di un conservatore), molto più di una piattaforma programmatica, un vero e proprio manifesto culturale alla ricerca di un conservatorismo modernizzatore. È stato dato inizio a una sotterranea quanto decisiva rielaborazione del conservatorismo americano e del Partito Repubblicano, una ricostituzione e rinascita, sintetizzata dalla sigla «Old Right». L’elemento nuovo è una visione «fusionista». Se ne fanno interpreti Russell Kirk, del quale nel 1953 era apparso un saggio sulle fonti del pensiero conservatore, The Conservative Mind; il sociologo Robert Nisbet e Richard M. Weaver. «Fusionista» è la capacità di unire la tra- dizione, la libertà, l’identità di una comunità non lasciando mai nessuno indietro. In questo modo il GOP, da espressione dell’aristocrazia, diventava il grande partito del ceto medio produttivo. Su tutto c’è un richiamo alle visioni di Edmund Burke, per il quale la modernità va vissuta senza omettere la trasmissione della memoria. Nel 1964 il filosofo Frank Meyer, padre del fusionismo, cura un libretto poco noto al pubblico dei non addetti ai lavori, ma che avrebbe esercitato una certa influenza nei decenni successivi, intitolato What is Conservatism? È la ricerca di un pattern capace di unire le diverse anime della destra USA, che trovano il denominatore comune nella centralità dei concetti di libertà e di persona indicati come fulcro di ogni elaborazione politica e sociale.

L’italiano Giuseppe Prezzolini, mente lucida e anticonformista, visse negli Stati Uniti per oltre trent’anni. Prese la cittadinanza americana nel 1940 e insegnò a lungo alla prestigiosa Columbia University. Studiò la politica americana, scrivendo tre libri: America con le pantofole, America con gli stivali, Tutta l’America. La rielaborazione del conservatorismo USA gli fa osservare che il conservatorismo «non è semplicemente un partito; è una struttura della mente umana», per poi aggiungere che il «progressista è la persona di domani, il conservatore la persona di dopodomani». Toccherà a Ronald Reagan con le sue doti di trascinatore, sedici anni dopo, farsi carico di concretizzare quel programma. Donald Trump ha più volte dichiarato che Reagan, in un loro incontro diretto, lo invitò a considerare una candidatura alla presidenza in campo repubblicano. Non sappiamo se questa circostanza sia vera o solo una trovata elettorale. Comunque sia, la vittoria di Trump ha fatto scattare un costante gioco al raffronto con il grande presidente degli anni Ottanta.

Del resto, anche allora le reazioni dell’establishment, soprattutto quello influente dell’intellettualità radical chic, furono visceralmente violente. Reagan fu oggetto di una vera e propria aggressione preconcetta: i democratici dissero che era un «attore inadatto», un «uomo pericoloso a cui non si può affi- dare la guida dell’arsenale nucleare». Il senatore Edward Ted Kennedy lo bollò come «un avventuriero», il senatore Daniel Moynihan lo accusò di essere paladino di una politica economica catastrofica. Spesso, in malafede, si ometteva di ricordare che era stato per otto anni, con eccellenti risultati, il governatore della California, fra gli Stati più ricchi e demograficamente importanti dell’Unione.

La storia, alla prova dei fatti, ha raccontato una vicenda diversa; perché Ronald Reagan, come riconosciuto ormai da una vasta storiografia e anche da precedenti detrattori, è stato colui che ha restituito fiducia a un’America prostrata dalla sconfitta in Vietnam, dallo scandalo Watergate e dal sequestro degli ostaggi nell’ambasciata USA di Teheran. La sua politica economica, inoltre, ha innescato un grande rilancio, un’epoca di virtuosa crescita, col taglio delle tasse, la fine dello strapotere sindacale e le privatizzazioni.

L’elezione di Trump, a prescindere dai tratti naïf e in alcuni casi sconcertanti del personaggio, appare essere un tentativo di risposta alla dissoluzione delle identità nel magma cosmopolitico auspicata dalle nuove classi globalizzate, rampanti e segnate dal tratto estetico del giovanilismo. Una rivendicazione di democrazia rispetto a quella che viene definita la desovranizzazione della politica.

Tornando al populismo, esso fece apparizione come movimento politico nella Russia zarista del XIX secolo, si definì narodnicestvo, da narod, che significa popolo, e giunse ad avere fra i suoi simpatizzanti il grande scrittore Dostoevskij. Il filosofo Martin Heidegger, nel delineare i pericoli del nichilismo europeo e di una società senza identità, ragiona su questo fenomeno. E lo fa ricordando il discorso che Dostoevskij tenne, nel 1880, quando gli fu affidata dal governo una commemorazione ufficiale del poeta Puškin. Sia Dostoevskij che Puškin attaccano quello che definiscono il ceto dell’intelligencija, le élite dell’epoca, che «crede di stare di gran lunga al di sopra del popolo», responsabile di aver alimentato una «società sradicata, senza terreno», e ne censura il comportamento «svincolato dalla terra del nostro popolo». Per secoli, le società occidentali si sono alimentate della concezione greca e romana della res publica, nutrendosi di un’idea classica che fonda insieme i valori di libertas e virtus, capaci di delimitare un recinto identitario che esalta il valore degli individui nella comunità, definendo quello che Giambattista Vico chiama l’idem sentire de re publica, quando parla di «sapienza poetica» di un popolo. È per questo che Oswald Spengler in Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente), proponendo un’idea faustiana dell’Europa, culla della civiltà, individua nel cosmopolitismo, che è «l’opposto della vita», il tratto della decadenza. Un tema che affascina un intellettuale come Antonio Gramsci, il quale «corregge» il marxismo classico aprendo al popolo-nazione richiamando il rispetto della volontà collettiva di una nazione.

Martin Heidegger, nella sua opera fondamentale Sein und Zeit (Essere e tempo), descrive, come annota Prezzolini, una «filosofia contemporanea che molto si addice al sentimento dei conservatori». Il conservatorismo per Heidegger è chiamato a preservare la democrazia dell’essere che poggia su elementi essenziali: il Führung, il comando; il Volk, il popolo; l’Erbe, l’eredità; la Gefolgschaft, la comunità dei seguaci; il Bodenständigkeit, il radicamento alla propria terra.

La triade dei sostenitori di Trump, white trash, spazzatura bian- ca, redneck, terroni, hillbilly, montanari, come li chiamano i loro benpensanti detrattori, forse, non è mossa solo dalla decadenza economica ma probabilmente anche dalla minaccia alla loro identità. «Le élite di Boston e New York che sostengono la creazione di un welfare state in stile europeo» scrivono John Micklethwait e Adrian Woolridge in The Right Nation. Conservative Power in America «credono di avere una buona chance di civilizzare quelli che qualcuno di loro chiama yahoos. Ma questi yahoos (bruti, ignoranti) come dimostra anche il ciclo elettorale a cui abbiamo assistito, tendono a opporsi all’idea di essere domati.»

Per Aleksandr Dugin la democrazia deve essere intesa «come comunità metafisica e sovratemporale, di cui non fanno parte solo i viventi, gli antenati e i non ancora nati». In Memorie del sottosuolo scrive Dostoevskij: «E da dove mai l’hanno cavato tutti questi sapienti che l’uomo abbia bisogno di chissà quale modo normale e virtuoso di volere? In base a che cosa si sono andati a immaginare che all’uomo occorra un modo sensato e vantaggioso di volere? Quello che occorre all’uomo è solamente un suo volere indipendente, qualunque cosa gli dovesse poi costare tale sua indipendenza e a qualunque esito dovesse portarlo…». Che forse anche il conservatorismo americano si stia distaccando da una dimensione capitalistica e mercantile per assumere una connotazione storicista e idealista? Vedremo.

L’utopia della globalizzazione, quella che si era affacciata prepotente all’indomani della caduta del Muro di Berlino, è in profonda crisi. Era stata costruita attorno a due pilastri: «politically correct» e «responsibility to protect». Doveva essere la realizzazione dell’uomo nuovo, la reductio ad unum di ogni differenza, il nuovo ordine mondiale unipolare. L’obiettivo era quello di sostituire i cittadini, titolari di diritti e doveri, con una comunità politica, quella dei consumatori, a cui vanno cancellate identità e tradizioni. La storia, invece, si è rimessa in moto.

Trump non è un intellettuale ma ha colto il senso del tempo. Potrebbe rivelarsi la risposta sbagliata a problemi reali e a rivendicazioni fondate. Demonizzarlo, come fa quotidianamente la gran parte dei media, non serve e non aiuta a capire.

(*) Tratto da "Trump. Vita di un presidente contro tutti" (Mondadori)

Aggiornato il 11 settembre 2020 alle ore 10:46