Opinioni a confronto: la giustizia

“Caro Renato, viste le novità che sono venute fuori in questi giorni e di cui hanno parlato tutti i giornali e la televisione, io vorrei dire due parole sulla Giustizia, anche se ne ho parlato tante volte, pure sull’Opinione parecchi anni fa”.

“D’accordo. La Giustizia è sempre all’ordine del giorno, e da noi non funziona nemmeno quella, cioè funziona nell’interesse e dal punto di vista politico dei magistrati e dei giudici, che tirano l’acqua al proprio mulino”.

“Vorrei partire dall’esordio di un dramma di Ugo Betti, Corruzione al Palazzo di Giustizia, regalatomi da lui quando collaboravo ai programmi della Rai. È un caso di corruzione della Giustizia che analizza i rapporti fra magistratura e politica, un tema quanto mai attuale e scottante. Il palazzo – così esordisce il giudice Bata all’inizio del lavoro teatrale, rappresentato per la prima volta nel 1949 – è la miniera, il pozzo, il nido del malcontento, dei sussurri. Comincia un magistrato a spargere calunnie, un altro gli va dietro e il giorno dopo sono dieci, venti e così via. È come una cancrena che si allarga”.

“Non è facile amministrare la Giustizia, anche l’arbitro nelle partite di calcio a volte sbaglia. Per questo Giove al tempo degli dèi nel caso di processi rilevanti, prendeva la bilancia e si affidava al Fato, che stava al di sopra degli dèi stessi ed era la Legge suprema. Noi al posto del Fato abbiamo la Provvidenza, e perciò molti magistrati e molti giudici se ne approfittano usando la Giustizia a proprio uso e consumo, condannando un imputato solo perché le idee politiche di lui non coincidono con le loro, o soltanto perché gli sta antipatico”.

“Quando nella Giustizia s’infilano la passione, la faziosità, la menzogna, gl’interessi personali e altri simili vizi, la Giustizia è finita. Socrate, lo svuotacervelli, condannato perché violava la libertà dei giovani svuotando appunto le loro menti per infilarvi le sue idee, esclamò: Non rimprovero i giudici per avermi condannato, li rimprovero per avermi condannato con cattiveria. Ecco, uno dei difetti dei nostri magistrati, se non proprio il primo, è la cattiveria, il gusto sadico della condanna. Per la Chiesa gli uomini sono tutti peccatori (compresa lei), per i magistrati e per i giudici sono tutti imputati di qualcosa. Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.

“In Italia la Giustizia agisce spesso dietro la spinta di un sentimento di odio, di vendetta. infierendo ostentatamente e insistentemente contro l’imputato, lasciandosi andare ad espressioni del tipo Io quello lì lo sfascio!, È giunto il momento d’intervenire anche in forme sino a questo momento impensabili, Useremo tutte le nostre cartucce!, come se il magistrato invece che nell’aula di un tribunale si trovasse in un saloon del Far West. Ma forse chi l’ha sparata più grossa è quel magistrato che istigando i colleghi esclamò: Rivoltiamo l’Italia come un calzino! Una frase quanto mai significativa ed eloquente che si richiamava ad un progetto antico secondo il quale la Giustizia avrebbe dovuto fare piazza pulita di tutto ciò che potesse ostacolare la sua ascesa al potere assoluto, sostituendosi addirittura alla Politica”.

“Corrotto è anche chi utilizza i testimoni pro domo sua, magari ricattandoli, in modo subdolo o palese, chi si serve di delinquenti pentiti e di intercettazioni, mentre il magistrato, per mantenersi veramente imparziale e al di sopra di ogni sospetto, deve essere completamente libero e immune da qualsiasi intrusione che possa condizionarlo, non deve dar retta e tanto meno piegarsi alla voce popolare, alle opinioni di questo o di quello, a ciò che dicono i giornali, né deve partecipare a dibattiti politici o a manifestazioni di piazza parlando come un uomo di parte, altrimenti corrompe l’alta e nobile funzione a cui è stato chiamato. Un esempio di corruzione della Giustizia nel mondo classico ce lo offre Aristofane ne Le Vespe, una sottile requisitoria contro il sistema giudiziario che a quell’epoca in Atene era affidato ai giudici popolari, i quali, per l’elevata retribuzione e l’appetibilità di quella carica, erano docili pedine nelle mani del potere politico, per cui l’imparzialità e la serenità dei tribunali costituivano una merce rara. Il protagonista della commedia, Filocleone, è un vecchio giudice che dorme in tribunale per essere sempre pronto a condannare il primo imputato che gli capita a tiro, innocente o colpevole che sia, poiché ritiene che l’imputato sia sempre e comunque un delinquente. Come lo vede, prima ancora che il processo abbia inizio: Adesso lo fottiamo!, mormora ai colleghi. Forza, amici giudici, vespe furiose, tendete il pungiglione acuto, che è la nostra arma, colpite, colpite con rabbia, al culo, agli occhi, alle dita, tutt’intorno!”.

“Nella Grecia di Aristofane un grande ruolo nei processi l’avevano i sicofanti, spie, delatori, calunniatori di professione (oggi si chiamano collaboratori di giustizia), i quali avevano il compito di origliare fra la gente per sentire se qualcuno complottava contro la democrazia, e poi correvano dal giudice a riferire. Fra i delatori c’erano anche le prostitute e le minorenni date in affidamento, che facevano dire al vecchio giudice Filocleone: Se nel testamento un padre affida la figlia a qualcuno noi mandiamo a farsi fottere il testamento e il sigillo messovi sopra, e la ragazza la diamo a chi ci convince di più. E di tutto ciò non dobbiamo rendere conto a nessuno, perché nessun potere sta alla pari del nostro”.

“Anche questo atteggiamento, il delirio di onnipotenza, come la smania di protagonismo, è indice di una mente guasta, esaltata e in definitiva corrotta. Oggi si sono affinati i metodi, perfezionati i mezzi, ci sono i telefoni e i cellulari, si piazzano microspie nelle camere da letto e nei gabinetti delle case private. Così, prima ancora che le voci siano vagliate e depurate di tutto ciò che non ha alcuna rilevanza penale, inizia il passa parola: il Leviatano dell’Informazione – mostro orrendo, come la Fama virgiliana, dai mille occhi, dalle mille bocche e dalle mille orecchie, tenace spacciatrice di menzogne e verità – s’impadronisce di quel prodotto abusivo, lo manipola, lo mastica con i suoi denti avvelenati con un gusto sadico pieno di rabbia e di soddisfazione, e poi lo sputa riempiendo pagine su pagine: mille, diecimila, centoventimila!”.

“Che non sono niente di fronte ai milioni di pagine che si potrebbero riempire intercettando tutti i pensieri che passano per la mente dei cittadini. E se questi gridassero ai quattro venti ciò che pensano dei magistrati? O se li intercettassero?”.

“A questo proposito senti la trascrizione fedele, registrata, di un colloquio molto significativo (riportato dalla stampa) fra un magistrato e una imputata: Lei deve tenere presente una cosa, che se io sono venuto qui a farle delle domande, può essere pure che lei sia stata seguita, no? Che le siano state fatte delle fotografie, che siano stati seguiti i suoi movimenti, magari per mesi, che siano state ascoltate le sue telefonate. Quindi io perciò la esorto a dire la verità. Lei è una ragazza giovane, quindi è giusto che io, che faccio il magistrato, le ricordi che deve dire la verità, perché altrimenti commette un reato e quindi, diciamo, poi avrà ovviamente appunto dei problemi. Allora a me quello che interessa sapere è questo, non è che m’interessa sapere, questi sono atti segreti, perché sono atti di indagine. Non è che io mi voglio fare i fatti suoi, a me interessa però, se lei ha scambiato le sue, diciamo, prestazioni sessuali con l’interessamento di S.S., perché, insomma, tra l’altro, voglio dire, questo è un atto segreto, segretato, non è che questo è un atto che va sui rotocalchi. Quindi lei è qua come in un sacrario, in cui le vengono poste delle domande, alle quali deve dare una risposta in termini di verità, cara signorina. Lei non può inventare delle storie. Mi ha capito? Allora lei, voglio dire, è mai stata con S.S. o no? Nell’ambito di questo rapporto carino, diciamo, che si è creato, ci sono stati o no con il signor S.S., diciamo, dei momenti di intimità? E comunque, voglio dire, ci è andata a letto con S.S.? Dica, risponda, signorina, ha fatto l’amore alla Farnesina? E quando l’ha fatto?”.

“Chi ci salverà da questo Grande Fratello che ci spia giorno e notte e che non si accontenta di quel che sente ma si alimenta e si accresce sempre più, di sospetti, di voci dubbie o false, di supposizioni? È come un gioco a ping pong: da una parte ci sono i giornali che lanciano l’accusa, magari per provocare l’intervento dei magistrati, o perché i magistrati, sotto banco, gli hanno passato le informazioni, dall’altra c’è una Giustizia che aspetta, a intervenire o a decidere, perché prima i giornali devono darle un appiglio, devono fare il lavoro sporco che i magistrati, puliti, non possono fare, ma di cui sono ben contenti quando si tratta di eliminare qualcuno che gli sta particolarmente antipatico”.

“Ma che Giustizia è una Giustizia che dipende dalle voci, dalle intercettazioni, da pentiti e dai sicofanti, i quali nel momento in cui le danno una mano offendono e mortificano la Giustizia stessa? Dov’è la sua autonomia? Se un mafioso collabora con la Giustizia, la Giustizia a sua volta, mostrando di dargli credito e importanza, fa un favore alla mafia, la quale ne approfitta e se ne serve, assumendo un ruolo che spesso nel processo è addirittura di primaria importanza. È avvilente una giustizia che viene data in subappalto ad altri, che manda all’avancarica i pentiti, le spie, le escort, i trans e lascia che i giornali le spianino la strada. Anche lei intorbidisce le acque quando tira in ballo fatti e personaggi che con quella specifica imputazione non hanno nulla a che vedere. Se poi lo fa per interessi personali, per eliminare un avversario politico, per mettersi in mostra, per guadagnarsi uno spazio sui giornali o nei programmi televisivi è ancora più riprovevole”.

“Una riforma della Giustizia non può partire da uno spirito vendicativo, ma nemmeno si devono vedere magistrati che fanno i processi nelle piazze e negli studi televisivi. Questa sì è un’usurpazione, un’offesa alla Giustizia, un’umiliazione dei magistrati stessi, i quali scendono dai loro seggi istituzionali per misurarsi come dei pugili sul ring fra due opposte tifoserie, assoggettandosi, prostituendosi agli umori della piazza, alla propria vanità, al proprio spirito di rivalsa, agli interessi corporativi, di carriera e così via. Sono i magistrati stessi che abdicano alla loro nobile funzione, insinuando anche loro sospetti e timori, nonché il dubbio se la Giustizia sia veramente autonoma, come loro vanno gridando”.

Il potere di giudicare – diceva Leonardo Sciascia – dovrebbe avere radice nella ripugnanza a giudicare, nell’accedere al giudicare come a una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio. Non da questo intendimento i più sono chiamati a scegliere la professione di giudicare. Una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come un dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a esteriorizzarlo. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società, che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli”.

La Giustizia

La Giustizia, da noi, fatto inaudito,

dipende dalle voci, dai si dice,

dalle testimonianze di un pentito,

di un mafioso, da qualche meretrice,

 

tutti degni di credito, perché

non dicono nemmeno una bugia.

Viene allora da chiedere: Dov’è,

o giudici, la vostra autonomia?

 

Pochi sanno che in tempi ormai remoti

una consorteria di magistrati

italiani e stranieri molto noti,

fra cui Colombo e Bruti-Liberati,

 

al grido di “O la Giustizia o il caos!”,

proclamavano la necessità

di un intervento che, spazzato il caos,

desse loro la piena autorità.

 

Che dire, poi, di certi magistrati,

assetati a tal punto di giustizia,

che vanno sfruculiando gl’imputati

con tanta e spudorata impudicizia?

 

E che Giustizia è quella che sa già

che violerai la legge e non ti avverte,

ma aspetta zitta zitta che tu prima

compia il reato e “dopo” ti condanna?

 

La Giustizia non deve intervenire

solo a fatto compiuto: quando sa

che quel fatto accadrà, deve cercare

di evitarlo, avvertendo, minacciando.

Aggiornato il 02 luglio 2020 alle ore 13:12