Non tutta l’arte è fica, ma la fica è un’opera d’arte

mercoledì 24 giugno 2020


Non esiste prigione peggiore di quella che ci si crea da soli nell’illusione di essere liberi. I deliri e le devastazioni del “politically correct” proseguono indisturbate, avallate sempre più da un mondo ottuso che ha dimenticato – spesso volutamente – qualsiasi legame dell’Arte con l’Eternità, con la Bellezza e con l’Armonia.

Lo vediamo in questi giorni per la bella strada porticata di Bologna, via Indipendenza, oggi riutilizzata come galleria estemporanea per promuovere le opere di street art femminista, queer e – ovviamente non può mancare – antirazzista, con il non molto originale titolo di “La Lotta è Fica”.

Mi chiedo cosa sarebbe successo se il termine “fica” fosse stato usato come titolo d’un giornale oppure semplicemente in un qualsiasi altro contesto, anche culturale. Sono certo che in tal caso sarebbero insorte per prime le pasionarie in servizio permanente ed effettivo dei vari movimenti arcobaleno, a puntare il dito contro il termine giudicato sessista, patriarcale e offensivo nei confronti delle donne. “Fica” dunque, alcuni o alcune, possono dirlo e scriverlo, altri no. Una strana forma di razzismo anche questa mi pare.

La performance bolognese di arte pubblica è stata ideata dal collettivo femminile Cheap Festival e non è certo una novità, visto che sono almeno sette anni che essa viene riproposta, affiggendo stampe alle colonne dei portici aventi come tema le lotte femministe, l’antirazzismo, trans, queer e quant’altro la variabilità e la mutevolezza proteiforme dell’attuale transfemminismo può consentire.

Venticinque artiste, tra illustratrici, grafiche e altro si sono così cimentate a rendere alla città emiliana che: “Arte pubblica che parla di femminismo, della connessione del potere sistemico nel generare funzionalmente sessismo e razzismo, della necessità di elaborare strumenti di decolonizzazione, di rappresentare corpi che orgogliosamente esulano dalla bianchezza o dall’eteronormatività o dalla visione binaria del genere: così come sappiamo che non si è pronti a eliminare i simboli del privilegio, pensiamo che sia ora che si facciano i conti anche con quelli della nostra liberazione”.

Ripetitivo, monotono ai limiti della noia, perché non capisco proprio dove sia il problema. Vogliamo dipingere di scuro la Nike di Samotracia? Vogliamo dare una bella velatura di terra d’ombra ai nudi del Bronzino? Rigettiamo la Danae di Gustav Klimt perché di pelle bianca, dai capelli rosso ramati mentre viene inondata dall’aureo seme di un antico dio sessista come Zeus?

Dov’è il vero razzismo? Non è forse nel voler imporre, con un vero atto di supremazia al contrario, codici e canoni derivanti da un caos ad un’intera società sotto forma del pensiero unico? La regola, anzi il canone che il transfemminismo vorrebbe imporre, è quello del “meticciato” esteso ad ogni aspetto della cultura umana, cancellando dunque qualsiasi forma di arte passata perché frutto di un pensiero maschilista, bianco, “binario” e conservatore che avrebbe colonizzato il mondo.

Benissimo, siamo colonialisti, allora pensiamo che mentre nel nostro aureo Rinascimento, forse il punto più alto mai raggiunto dalla civiltà occidentale (bianca, patriarcale, sessista e suprematista, andatelo a dire a Caterina Sforza, ad Eleonora di Castiglia e ad Elisabetta I), in quegli stessi anni, tra il XV ed il XVI secolo, in piena Africa, prosperavano imperi di sovrani neri che sono svaniti poi nel nulla in brevissimo tempo, restando solamente in vaghe leggende. Quindi cosa ci hanno lasciato le altre – rispettabilissime – civiltà e culture? Rovine, ruderi fagocitati dalla giungla. Comunque riteniamo che la libertà debba essere sempre garantita, anche quando è quella di cercare di imporre mediaticamente un tipo di “culto laico” forse ancora più limitante di quello che tanto si vorrebbe combattere, come sta avvenendo oggi da parte dell’“antifascismo femminista”.

Bologna, la grassa e la dotta, resterà sempre quella di Niccolò dell’Arca nel suo splendido Compianto del Cristo Morto, in S. Maria della Vita e anche questa moda, trans o queer, antifà e non binaria, passerà lasciando intatto tutto ciò che vive da secoli e nei secoli e nulla, o anche meno, di sé.


di Dalmazio Frau