Opinioni a confronto: il Caso o la Provvidenza?

“Quel che non vietano le leggi può vietarlo l’onestà”

Seneca

“Ciao, Renato, buongiorno. Stavo per telefonarti io. Come va?”.

“Tiriamo a campare. Mai questa espressione è stata così appropriata come oggi. Meno male che abbiamo il telefono. Per non parlare del computer e del cellulare. Questi telefoni col registratore incorporato, poi, sono proprio provvidenziali. L’hai già avviato?”.

“Sì. Non ti ho mai detto che in passato, quando collaboravo ai programmi radiofonici della Rai, specialmente per la rubrica Libri ricevuti, con questo sistema ho intervistato grandi scrittori e personaggi illustri, come Alberto Bevilacqua, Giovanni Testori, Mario Luzi e tanti altri? Molti ne ho conosciuti personalmente. Ho intervistato persino Giuseppe Ungaretti, in Campidoglio, e Salvator Gotta, uno dei tanti ormai dimenticati, che scrisse l’ultima versione, fascista, di Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza. Ho una mole di cassette con le loro voci registrate e ti confesso che spesso me ne servo per le mie Interviste immaginarie. Risentire le voci di quei miei fratelli spirituali, come Papini chiamava i grandi personaggi della nostra storia, mi mette dentro una gioia e al tempo stesso un dolore che non si può immaginare”.

“È una grande ricchezza quella che possiedi, più unica che rara”.

“Non ero il solo: lo faceva anche Eugenio Danese, nel mondo dello sport. Un giorno, in cui come altre volte, mi aveva invitato a pranzo, mi portò nella sua camera: sul letto c’era una distesa di cassette con dentro le registrazioni delle voci di noti personaggi del calcio”.

“Se i nostri politici, invece di litigare sempre fra loro, non dico ascoltassero le voci, ma leggessero le opere dei grandi della storia, il nostro Paese non sarebbe ridotto in questo stato”.

“Lasciamo queste cose agli specialisti: la nostra è una rubrica di cultura, e dobbiamo ringraziare il nostro direttore ed amico che dà spazio alla cultura come o quanto non fanno gli altri quotidiani. Niente capita a caso: Henry Miller, l’autore del Tropico del Capricorno, diceva: Caso è il nome di Dio quando viaggia in incognito. Pensa, con questo coronavirus se non ci fossero stati i computer e i cellulari sarebbe stata la fine del mondo”.

“Perché?”.

“Perché, essendo costretti a restare in casa per non essere contagiati, ogni attività, il lavoro, lo studio, i negozi chiusi, le fabbriche, persino le farmacie, tutto si sarebbe fermato. D’altra parte se tutti, non essendovi i computer e i cellulari (e mettiamoci pure il telefono, la radio e la televisione), fossero stati costretti ad uscire di casa, per andare al lavoro, a scuola, alle partite di calcio, alla messa e così via, il contagio si sarebbe diffuso ancora di più”.

“E allora? Qual è la conclusione?”.

“Che se Dio ci manda, o, come dice la Chiesa, permette, il male, ci dà anche i mezzi per combatterlo. Per fare un solo esempio. Ci sono i virus, ma anche i vaccini. Come diceva Dante, ogni cosa cade a provveduto fine. Per provvidenza, con l’iniziale minuscola, non si deve intendere necessariamente e solamente Dio, e nello specifico il Dio del Cristianesimo. Posso citarti Seneca, il grande filosofo latino, in cui i Padri della Chiesa videro come un precursore del Cristianesimo. Aspetta un minuto che vado a prendere il suo De providentia, nella mia traduzione pubblicata dalla Newton Compton, la quale, detto per inciso, è quasi l’unica Casa editrice che pubblica opere classiche di autori greci e latini, diffondendo la cultura a basso prezzo per un vasto pubblico, e non si fa pagare, ma paga lei gli autori. Ecco qua. Senti questo brano: Tutta la nostra vita è stata già stabilita sin dal momento della nascita, tutte le cause, tutte le situazioni, umane e non umane, sono interdipendenti, concatenate, l’una legata all’altra, in una lunga serie che determina i fatti, sia pubblici che privati. Bisogna dunque accettare tutto con coraggio. Perché le cose non capitano a caso. Dunque, perché indignarsi? Perché lamentarsi? Così ha scritto anche Marco Aurelio nei suoi Pensieri. Ma c’è una frase, di Seneca, sempre nel De providentia, che è davvero illuminante, e che potrà sembrare in contraddizione con ciò che ti ho letto, perché concede all’uomo un margine di libertà. Ma anche la contraddizione è un aspetto di Dio, se Dio, come dice Giovanni nel Vangelo, è la Parola”.

“Qual è questa frase?”.

“Dio provvede all’uomo, ma non ai suoi bagagli. Ti faccio un esempio. Se un uomo si ammala perché, per sua trascuratezza, si è preso una polmonite, diciamo un virus, sono fatti suoi: sono questi i bagagli. Anche Dante dice che Dio dà alle azioni degli uomini soltanto l’inizio, ma poi, aggiunge, lume v’è dato a bene ed a malizia. Trovami oggi un filosofo, un politico, un ecclesiastico, un insegnante, che sappia accenderti l’animo con una frase così. Nessuno ai giorni nostri come Seneca è capace di infonderti nell’animo tanto entusiasmo, tanta forza morale e civile. Nemmeno il capo dello Stato”.

“Hai ragione. I nostri politici sanno poco o nulla di filosofia, la maggior parte di essi si danno alla politica per arricchirsi. Gli basta una legislatura, anche di un solo anno, e si prendono una pensione da milionari”.

“O Italiani, gridava Ugo Foscolo nel suo saggio Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, io vi esorto alle storie, cioè alla conoscenza del vostro passato, perché nessun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare. Nelle storie si spiegano tutti i precetti della sapienza, tutti i progressi e i meriti dell’italiano sapere”.

“Hai una memoria formidabile. Ma come ti vengono in mente tutte queste cose e tante belle idee?”.

“Ti dirò. Quando insegnavo, e il mio non era solo insegnamento di nozioni o notizie che chiunque avrebbe potuto trovare da sé, io, passeggiando fra i banchi, come facevano Socrate, Platone, Aristotele e altri, mescolavo le biografie e le opere degli autori con considerazioni profonde e dettagliate, relative alla vita, per dare a loro una formazione, un carattere, forte, deciso e risoluto, che è ciò che manca in generale agli Italiani, come diceva Massimo d’Azeglio”.

“Ti conosco da quando avevo nove anni e abitavamo nello stesso palazzo, a porta a porta. Al pomeriggio venivo spesso a casa tua, perché le nostre due famiglie si frequentavano assiduamente, e provavo un piacere immenso quando parlavi con me, per ciò che mi dicevi. Questo per una decina d’anni”.

“Amico mio, ho alle spalle un passato che pochi, specialmente fra gli insegnanti, possono vantare. E questo, oggi, dà fastidio a qualcuno”.

“In che senso?”.

“Da due anni aspetto ancora una risposta dall’attuale rettore del Convitto nazionale di Roma, in cui ho insegnato per una trentina d’anni, e che per me è stata come una seconda famiglia. Gli ho inviato ben tre mail, perché volevo conoscerlo, come ho fatto con gli altri rettori che si sono succeduti dopo il mio pensionamento. Inoltre gli chiedevo di poter presentare un mio libro (Lettera ad una scolaresca, scritto proprio sul Convitto) nell’Auditorium dell’Istituto, dove, pur essendo in pensione, avevo parlato molte volte. Io sono un uomo saggio, fermamente convinto che anche le cattiverie ci vengono da Dio per metterci alla prova, ma questa è stata l’offesa più grande che ho ricevuto nella mia vita. Ora, a parte quello della mia famiglia, non mi è rimasto altro conforto che il ricordo affettuoso dei miei ex alunni e ciò che vado scrivendo, con una ispirazione e con una vena poetica così feconda come mai non ho avuto in passato. Forse farò la fine di Francesco Petrarca, che spirò mentre scriveva seduto alla sua scrivania”.

“Il mio amore per la letteratura lo devo al professore d’italiano e latino. Quando penso a lui mi viene in mente per prima cosa la sua grazia. La grazia è un dono. Una persona può imparare ad essere gentile, educata, ma non può imparare la grazia. Quando recitava, a memoria, la Divina Commedia o semplicemente spiegava i versi di un sonetto, l’aula diventava la piazza della Firenze del Trecento e la cattedra il palcoscenico di un teatro dove si muovevano dame e cavalieri, tra il rumore dei cavalli e il vocio di un mercato all’aperto. Lui, con la voce pacata e i modi d’altri tempi, severo ma al tempo stesso affettuoso e rassicurante, era lì a raccontare la bellezza e la grandezza della lingua italiana. Mi spiace di non aver avuto allora la coscienza di quello che stavo vivendo. Lui seminava nel giardino della mia anima qualcosa che col tempo ha dato i suoi frutti. E di questo gli sono immensamente grata. Non era un professore come gli altri. Aveva fatto del suo lavoro la sua filosofia di vita. Quando spiegava gli brillavano gli occhi, sia che descrivesse la dolcezza dello sguardo di Beatrice o lo smarrimento di Dante quando cade in amore per la sua donna. Chi dei miei compagni leggerà queste parole, sicuramente ricorderà quello sguardo lontano, gli occhi socchiusi a godere della musicalità delle sue parole. Noi non lo sapevamo, ma lui stava gettando le fondamenta dell’edificio che ognuno di noi sarebbe diventato: vuoi per la materia, vuoi per la persona, egli ha lasciato un segno in tutti noi, e ciò trova conferma nelle parole di chi ha condiviso con me gli anni del liceo” (Danila Perdichizzi).

“Docente dotato di non comuni capacità didattiche e di vasta cultura, si è sempre dedicato all’insegnamento con senso di responsabilità e notevole impegno. I risultati conseguiti sono sempre stati pienamente soddisfacenti. Carattere serio e ponderato, rispettoso verso i superiori, pienamente cosciente della dignità del suo ufficio, mantiene con i colleghi e le famiglie rapporti improntati a cordialità e reciproco rispetto. È benvoluto e stimato dagli allievi che ne seguono, con profitto, l’insegnamento” (Il rettore-preside Francesco Cocca).

Aggiornato il 08 aprile 2020 alle ore 13:06