Liolà, un serial killer di cuori infranti al Quirino

mercoledì 12 febbraio 2020


Liolà? Un serial killer di cuori infranti, che va in scena al Teatro Quirino fino 16 febbraio. Un dramma-farsa pirandelliano tra suoni e canti; tra anziane sapute, sagge e materne, e fanciulle in fiore da sfogliare come petali di rosa per chi è nato con fattezze apollinee e ha il dono dell'infedeltà: il bellimbusto Liolà (Giulio Corso), per l'appunto. Tant'è che dotato del talento del carbonaro (come dice un detto di fine 1800: "dove tocca tinge") se ne va in giro a seminare la propria discendenza rendendo gravide incaute fanciulle di passaggio, per poi affidarne alle cure della propria madre i relativi figli illegittimi: ben tre maschi, stando alla conta che di continuo ci propone lo stesso Liolà. Morale: non ti sposo, né procedo a nessun matrimonio riparatore ma mi tengo il frutto di quelle nostre focose notti d'amore, in modo che tu sia libera di tornare a girare il mondo e io, invece, coltivi e allevi braccia maschili che saranno la mia ricchezza e sostegno nell'età matura, lavorando essi stessi la terra per me, sfruttati dal padrone di turno. Non vi ricorda forse quello che accadeva in Russia (sul quale aspetto si sono esercitati i più grandi romanzieri dell'Ottocento), ma anche qui in Occidente, a proposito degli innumerevoli figli illegittimi dei proprietari terrieri e della ricca nobiltà? In fondo, non è sempre esistito questo subdolo aspetto poligamico che le recenti civilizzazioni di matrice cristiana hanno sempre tentato di disincentivare e proibire attraverso i loro tribunali?

Infatti, anche in Liolà avviene una cosa simile, quando decide di ricorrere al delegato di polizia la zia di Mita, l'orfana che il possidente agrigentino del luogo, chiamato Zio Simone (Enrico Guarneri), aveva sposato in seconde nozze una volta rimasto vedovo nella speranza di avere da lei un figlio al quale lasciare la sua cospicua eredità, e che si apprestava a ripudiare (reato punito dal Codice Penale) per prendersi in casa una sua nipote, Tuzza, guarda caso rimasta ingravidata dal.. carbonaro Liolà, la quale aveva complottato con sua madre, Zia Croce (Anna Malvica), cugina di Zi' Simone, per far passare la sua creatura come figlio illegittimo dell'anziano possidente. Una storia di odi viscerali e di interessi materiali legati alla sacrosanta, dannata e demoniaca robba tra due giovani e bellissime donne, Mita (Alessandra Ferrara) e Tuzza (Roberta Giarrusso), entrambe intinte dal più noto tombeur de femmes del loro paese, il funambolico e inesauribile Liolà. Ma non ci sono soltanto il rosso e il nero dei sentimenti in gioco in questa bella e divertente opera pirandelliana: protagonista è anche la natura, come testimonia lo sfondo scenografico. Lo scenario, infatti, è dominato dai profili rocciosi degli scogli che si affacciano su di un mare blu cristallo e da un sole enorme sempre accesso.

Sole incandescente, autore del clima rovente che domina le piane agrigentine dove si coltivano le mandorle e si fa un vino forte, raccogliendo in fretta le uve aggredite da stormi di insetti a causa del loro elevato contenuto zuccherino. Qui la povertà e la miseria delle giovani braccianti che preparano sacchi di origano per il mercato, sedute giornate intere a cantare e celiare, sono levigate come un sasso di fiume e leggere come ali di farfalla. Pirandello, in un certo senso, approfondisce nelle scene (a proposito: complimenti a tutta la bravissima compagnia e alla regia di Francesco Bellomo!) i caratteri catartici della antica tradizione bucolica, per cui i tempi della ragione e della convivenza umana sono ritmati e cadenzati da quelli della natura e dai suoi spazi ampi e sconfinati. Soltanto l'istinto gruppale, l'accettazione fatalistica della divisione del mondo e della società nei pochissimi have e nei moltissimi have-not (cioè, tra chi ha e chi non ha) creano un equilibrio ingiusto sì, ma altrettanto solido e prezioso. Ce ne accorgiamo dall'irriverenza che le giovani donne e lo stesso Liolà hanno nei confronti di Zi' Simone, il quale ne accetta i sottintesi e l'ironia come un elemento del gioco della vita, senza nessun desiderio di rivalsa, né di punizione da parte sua, anche perché costretto nello stretto recinto del gioco verbale dalle più anziane che, come lui lo fu, sono rimaste povere braccianti e sue coetanee, delle quali Zi' Simone si è guadagnato stima e rispetto grazie al suo durissimo lavoro.

Giustizia verrà fatta, ovviamente. Forse anche eccessiva, diremmo. Pirandello, a quanto pare, non censura mai la ricchezza in sé quando deriva dal duro lavoro ma, attorno a questo mito, crea disastri esistenziali (qui la sterilità del ricco possidente e la situazione paradossale da Mandragola machiavelliana in cui si trova coinvolto) che sono poi quelli di ogni comune mortale.


di Maurizio Bonanni