Quali colori ha la luce dell’imbrunire? Certamente quelli sintetizzati in segreto dalla Dea Solitudo, ci dice Silvio Orlando nel suo “Si nota all’imbrunire”, testi e regia di Lucia Calamaro, in scena al Teatro Quirino fino al 2 febbraio. Perché, poi, quella specialissima Dea di un Olimpo d’ombra, colei che tanto per capirci si cela nella faccia nascosta della luna, spostandosi come un millepiedi sulla sua superficie rugosa, dove a ogni passo un umano rischierebbe la caduta in una depressione del suolo, ha nella sua bacchetta magica una panoplia di personaggi fantasmatici e di scenari insonni, cosicché il volontario recluso e solipsista può accomodarsi immobile sulla sua poltrona d’ignavo per viaggiare in ogni luogo del mondo in compagnia di gente propria o sconosciuta. La Dea lo assisterà nei suoi lungometraggi di solitudine lasciandone sospeso il senso di una vita non vissuta, nell’attesa che riappaia nella lama di luce della porta d’ingresso della sua casa solitaria di campagna proprio l’ombra dei piedi di una moglie e compagna amatissima rimpianta e mai sostituita. Perché Silvio una famiglia ce l’ha. Il fratello Roberto (Roberto Nobile), fanatico di citazioni fino all’esaurimento nervoso dei suoi forzati uditori, e tre figli, di cui due femmine, Alice e Maria, e un maschio, Vincenzo che, però, ha talmente tanta kryptonite nella sua borsa da impedirgli di volare come vorrebbe e potrebbe.

Quei figli di Silvio sono le parti in commedia di un’unica anima. Si dibattono collettivamente in un mondo collassato in un oscuro centro puntiforme dotato di un’immensa massa gravitazionale, quasi un Black-Hole dei sentimenti umani in cui l’altra Dea malvagia, La Depressione, si insinua in tutti gli interstizi vitali e nelle membrane cellulari, forandole e fagocitandole come un virus mortale. La vittima, qualunque sia il sesso, viene violentata dalla sua stessa mente che persegue l’ineseguibile come farebbe un compositore pazzo e cieco cercando nuove note fuori dal pentagramma, quelle cioè che nemmeno l’orecchio perfetto di Mozart ha mai potuto percepire ed elaborare. Maria (Maria Laura Rondanini) è un medico che non può esserlo né di se stessa né degli altri perché l’Ossessione è sua madre, sorella e compagna. Non ha amori ma odi. In fondo, qual è la differenza? Le radici sono le stesse, solo che hanno il segno invertito. Così, come Linus, pervasa dal suo Caos interno, è sempre a caccia di un ordine esterno da ottenere e mantenere o ogni costo, piegando e ripiegando maniacalmente la stessa biancheria, che trasporta in lungo e largo per tutte le stanze e gli ambienti della casa paterna. Lei, sua sorella, il fratello e lo zio sono là come farebbero altrettanti fantasmi accudenti, ivi convenuti per la solita visita annuale a quel padre così solo e isolato, in occasione della celebrazione comune dell’anniversario della scomparsa della propria madre e cognata, rispettivamente.

Alice (Alice Redini), invece, è un’altra Dea dell’Olimpo in ombra il cui nome è “Nessuno”. Perché lei, effettivamente, “non è”. Cerca in sé l’anima poetica ma è capace solo di plagio. Sente corpi estranei che la frugano dalle viscere al collo mentre annuncia urbi et orbi la sua vocazione al suicidio, che però non la fanno assomigliare in nulla ai poeti maledetti che cerca disperatamente di raggiungere nei suoi sonni irrequieti. Ma anche Vincenzo (Vincenzo Nemolato) non si distacca mai da quella Luna Nera che abita l’intera famiglia di Silvio, il protagonista. Lui, il figlio, vive da uccello notturno e detesta il giorno che lo costringe ad alzarsi e a trovare risposte a quel vivere quotidiano che lo tormenta perché gli manca l’ideale-motore, quello che ti fa inseguire una grande prospettiva, un progetto di vita. Ovvio che quel padre, così tardigrado, che stenta a muoversi dalla sua sedia vivendo di stanchezza perenne (avendo però dato tutto durante una vita spesa a fare il medico con tre specializzazioni a beneficio del suo prossimo), sia un estraneo, quasi un nemico che lo sollecita al cambiamento senza mai dare il buon esempio. Ma, in fondo, che cosa vorrebbe Silvio come padre? Essere abbracciato e abbracciare chi tanto ha amato nella sua vita e che, ora, non sa più riconoscere come suo. Perché, come ci dice Orlando, “a una certa età i figli sono peggio delle suocere!”. Spettacolo bello, struggente e carico di sorriso amaro. Compagnia eccelsa.

(*) Foto di Maria Laura Antonelli

Aggiornato il 23 gennaio 2020 alle ore 12:08