“Falstaff e il suo servo”, storia di un servitore-padrone

Sei un padrone sciocco e vaniloquente? Allora William Shakespeare ti condanna a essere il servo del tuo servo. Molti e controversi sono gli aspetti morali del dramma farsesco "Falstaff e il suo servo", in scena al Teatro Argentina fino al 12 di gennaio, per la regia di Antonio Calenda, con Franco Branciaroli nel ruolo del capitano Falstaff, amico ripudiato del Delfino di Francia poi divenuto il re Enrico V, e Massimo De Francovich nella parte del suo servo fintamente fedele.

Il corpulento Falstaff (praticamente identico a quello di varie illustrazioni a colori dell'epoca!) si esibisce come un dio pagano dell'abbondanza trascinando la sua carcassa di grasso e grandi ossa, immancabile impalcatura delle passioni tristi a sostegno della laidezza di un'età matura priva di contegno. Così, l'immaturo capitano si rende lo zimbello del suo Prossimo mettendosi un metaforico cappello a sonagli mentre attorno e dietro a lui, che crede di esserne il dominus, si tesse una trama di sottintesi e di tranelli ben congegnati all'interno della sua piccola comunità di conoscenti e amici, tanto superficiali da accontentarsi delle passioni tristi di un vecchio trombone stonato. Le scene colgono tutti costoro in pose invereconde mentre si ubriacano senza dignità, fanno finta di alzarsi la gonna per scherno e ammaestrano bastonate vere a chi cade nel loro tranello credendo di farne dei mariti becchi, senza tener contro del rostro che costoro hanno per maschera vivente. Testimoni finti veri che ci vedono quando e come pare a loro, per sistemarsi come tanti corvi sulla gobba del diverso.

Poi, c'è lui, il Servo. Sempre incombente e ambiguo, che dichiara al pubblico di non aspirare al denaro del suo padrone quanto a renderlo docile ai suoi comandamenti di buon senso, ben sapendo che per Falstaff quelle sue condotte superficiali di crapulone, beone e perditempo sono un irridente inno alla vita quando di essa si è già percorso un buon tratto. Poi, oltre alle perfide Commari di Windsor, c'è il testo incombente della politica con le sue interminabili, disastrose e sanguinose guerre (a spese della povera gente) tra potenze nascenti, con l'allievo principe che ripudia con scarso senso della riconoscenza e del coraggio quel suo ingombrante maestro di bevute e di orge, che si vanta di ricchezze mai possedute e chiede la protezione del suo sovrano a copertura delle proprie menzogne e spavalderie, tipiche di un condottiero senza più soma né uomini al seguito. Così il Servo organizza beffe e piccoli complotti che rovesciano il grossolano Falstaff come una tartaruga sulle rive di uno stagno, ammaestrando comari e servi su come impartire lezioni di buone maniere al suo sprovveduto signore. Spinto alla guerra, dopo aver guadagnato un bel gruzzolo di sterline scambiando con altrettanti straccioni abili soldati sfuggiti alla leva del sovrano dopo aver pagato la dovuta tangente a Falstaff, l'appesantito capitano sale maldestramente sul cavallo (di legno come quello di Ulisse, ma assai meno fortunato di quest'ultimo!) e muore in una battaglia che non aveva mai saputo né voluto combattere.

Nel cono d'ombra finisce sostanzialmente una società senza progetto che separa come in una antesignana cortina di ferro la vita dissoluta e vuota di senso della nobiltà dell'epoca e dei suoi vassalli, nella cui sfera d'azione i servi astuti, come gli schiavi preferiti e insostituibili ai tempi della classicità, stanno con un piede nella melma e nelle disavventure del volgo, mentre con l'altro calpestano i prati curati dei padroni, approfittandone della mensa, dei rapporti intessuti attorno alla relativa cerchia nobiliare e borghese, nonché della loro borsa, e spesso ereditandone le sostanze per metterle a frutto molto meglio di quegli sprovveduti benefattori, la cui natura scomposta e lontana dalla realtà li ha resi strumenti inconsapevoli dell'intelligenza altrui, solo apparentemente asservita. Ma mentre il servo gode della sconfitta definitiva di Falstaff, quest'ultimo irride la stupidità dei saggi mandando ramengo il mondo intero, in un ultimo sussulto di incosciente vitalità. Perché, poi, è vero che quasi nulla di ciò che appare resta, mentre moltissimo di ciò che lega istinto e ragione si propaga nelle diverse generazioni come un dipolo magnetico indissolubile lungo le ere dell'umana vicenda terrena.

Aggiornato il 10 gennaio 2020 alle ore 12:40