Un classico del verismo al Quirino

Cuore e Denaro. Il primo serve a “fatigare”. Il secondo a raccogliere e quantificarne i frutti. Ma poiché quest’ultimo è anche lo... “Sterco del Demonio”, va da se che la tragedia incombe sull’arricchito quando è il Denaro a mangiarsi il Cuore. Il dramma umano e impietoso della sete di “robba” conduce a un vero e proprio delirio di potere per la conquista degli spazi carnali e spirituali di un’umanità decadente, o in stato di bisogno alla ricerca di protezione e sicurezza da parte del più forte.

Tutto questo ci è spiegato magistralmente dalla bellissima riduzione teatrale del capolavoro di Giovanni Verga, “Mastro Don Gesualdo”, in scena al Teatro Quirino fino all’8 dicembre, per l’ottima regia di Guglielmo Ferro e l’interpretazione magistrale di Enrico Guarneri e Francesca Ferro. Esempio eccellente della forza espressiva del teatro catanese, il cast dà vita e forma all’emergere di un complesso interno di famiglia che vede riunito il ramo Trao di nobili decaduti con quello dei Motta dell’operaio arricchito, padre padrone diventato ricco grazie al suo duro lavoro. Lui, la Formica. Loro, le Cicale: due fratelli anziani e una sorella, Bianca, non più giovanissima e senza dote ancora da maritare. Sarà l’astuzia di una zia contadina ma nobile di lei, Rubiera, a trovare grazie alla mediazione del canonico Lupi il famoso “coperchio” maritale, in grado con le sue sostanze di rimettere in sesto una dimora nobiliare che cade in pezzi, senza che nessuno si curi del Cuore di Bianca.

Guarneri, tossendo bile alla fine della vita di don Gesualdo e imprecando senza sosta il “Sangue di Giuda” nei momenti topici del dramma, scorre con assoluta abilità, intensità ed espressività emotiva coinvolgente le vicende temporali di quel matrimonio disgraziato senza amore, da cui è nata Isabella, una figlia algida e dura come sua madre nei confronti di quel padre cafone, iroso e despota. Visti i rapporti coniugali praticamente quasi inesistenti tra Bianca e un Don Gesualdo, impegnato quotidianamente allo spasimo per incrementare a dismisura il suo patrimonio di terre, di contadini e di raccolti, viene spontaneo pensare al... triangolo. Dove stavolta, però, i vertici sono due. Da un lato, l’esplicitarsi di un rapporto di piena sudditanza tra Don Gesualdo e la sua più fedele servitrice Diodata, costretta a occuparsi di nascosto dei due figli illegittimi avuti dal suo padrone. Dall’altro, la tresca tra Bianca e il cugino Ninì Rubiera (figlio unico della baronessa che lo ha estromesso dall’amministrazione del patrimonio di famiglia, conoscendone i costumi dissoluti e depravati), scoperti a letto insieme dall’anziano fratello tisico di lei, Don Diego, in occasione di un incendio a Palazzo Trao, causato dall’incoscienza e dall’incuria dei contadini. Cosa che darà luogo al matrimonio di convenienza tra quel ramo di nobiltà decaduta e la dinastia rampante operaia e contadina dei Motta. Ma l’immensa sala da pranzo sontuosamente imbandita a spese del protagonista rimarrà desolatamente vuota, per il boicottaggio dei parenti nobili di lei.

Don Gesualdo, rappresentato come un’indefessa formichina operosa, si scopre così con un cervello da scorpione. Fagocita in affari la ricca zia Rubiera di Bianca, sottraendo con la forza del suo denaro lo sfruttamento delle terre comunali ai possidenti nobili e ai maggiorenti locali, che ne avevano avuto fino ad allora il monopolio. In tal modo, Verga sembra superare anche Marx, nel senso che qui la classe contadina-operaia va davvero in paradiso facendo vassalla l’aristocrazia nobiliare! Emarginato e disprezzato dall’ambiente familiare della moglie, Don Gesualdo matura le sue silenti, velenose vendette. Sospettando fin dall’inizio che Isabella sia la figlia illegittima di Ninnì ne foraggia le spese dissolute, la cui scoperta provoca un ictus fatale alla baronessa Rubiera che rimane paralizzata e non più in grado di provvedere all’amministrazione del suo patrimonio. L’altro “dente” da estrarre per vendicarsi di Bianca da parte di Don Gesualdo è rappresentato dall’allontanamento in collegio a Palermo di Isabella e dal suo matrimonio forzato con un nobile ben più anziano di lei. La figlia non riuscirà nemmeno ad assistere la madre morente, stroncata dalla tisi come suo fratello Diego. Ma la vittoria dell’odio oscurerà l’amore di Diodata e dei suoi figli che non troveranno giustizia nella divisione della “Robba”, dopo la morte solitaria e disperata di Don Gesualdo.

Per info: Teatro Quirino

Aggiornato il 04 dicembre 2019 alle ore 13:48