“Il colibrì”, se una piuma pesa più di un elefante

lunedì 2 dicembre 2019


Che fine fa un Colibrì intrappolato sotto il sedere di un Elefante? Ce lo racconta Sandro Veronesi nella sua ultima fatica “Il Colibrì”, Ed. La Nave di Teseo 2019.  Marco, il protagonista, è assimilato con il suo nickname al minuscolo volatile che resta stallato sui pistilli dei fiori grazie al moto e alla frequenza elevata del battito delle sue ali. Lui, un oftalmologo ossessionato dagli psichiatri e dalla psichiatria perché, in fondo, tutti i suoi conoscenti e affetti maggiori sono passati per le mani di un analista, ben prima di morire o di suicidarsi. O, forse, l’hanno fatto proprio per quello. Vallo a sapere. Il romanzo è una grande cavalcata sulla morte e sulla mancata remissione del lutto, al singolare come al plurale. E, giustamente, il più grande amico di gioventù dello sfortunato Marco è proprio un grandissimo iettatore, Duccio, che con i suoi anatemi gli salva la vita ma nel farlo subisce dal protagonista il più atroce degli anatemi e delle condanne sociali. “Il Colibrì” è in fondo una storia quasi esclusivamente di donne, raccontata attraverso le vicende e gli occhi di un ragazzo e poi di un uomo e, infine, di un anziano.

Un racconto, cioè, dove l’amore e la sua illusione hanno un verso e una direzione soltanto: quella del protagonista Marco Carradori che ha come soggetti-oggetti, rispettivamente: sua sorella Irene, introversa, intelligentissima e altrettanto caratteriale, morta giovane e suicida; la madre Letizia raffinatissimo architetto e intellettuale; Luisa il suo grande amore (ahimé) rimasto platonico per la folle volontà degli stessi due amanti; la moglie Marina venuta dall’Est Europa sposata per un inganno e un malinteso; la figlia Adele, ragazza madre, morta giovane non si sa bene se suicida scalando una montagna; la nipotina Miraijin, figlia di Adele che in giapponese significa “uomo del futuro”. E anche se in questo caso si tratta di una bambina, va benissimo lo stesso. Dopo l’irrisolto, terribile e paralizzante lutto dell’amatissima sorella Irene, ecco arrivare l’uno-due della scomparsa a poca distanza di tempo, a causa di tumori devastanti quanto dolorosi e rapidi, della madre Letizia e del padre Probo, ingegnoso e introverso ingegnere modellista con la passione per i plastici dei trenini. Cosicché al povero Colibrì non rimane altro che spostarsi da un campo di crisantemi a un altro fino a portare le sue vibranti ali nel pozzo senza fondo della scomparsa di Adele.

Ma lui non ce l’avrebbe fatta a stare fermo con tutto quel mondo che gli girava vorticosamente attorno, per cui erano le varie aree geografiche del mappamondo a scorrere sotto i suoi piedi attraverso i racconti di altri. Come quelli del fratello Giacomo sparito nella Fossa delle Marianne del mondo universitario statunitense e rimasto silente per decenni, resistendo all’effluvio di corrispondenza epistolare del fratello Marco. Come l’epistolario con le avventure di Luisa, girovaga tra Parigi e Firenze. Sarà tuttavia proprio l’analista, medico psichiatra della ex moglie Marina (nel frattempo rinchiusa in un ospedale psichiatrico a Vienna), certo Dr. Carrera, a inchiodarlo sull’esigenza di realtà costringendolo a restare con i piedi ben saldi a terra. Proprio quel Carrera che ha abbandonato in stretta sequenza la professione e il tennis, suo sport preferito, dopo aver incontrato altrettante volte Marco. Così, il ludopatico Carradori, pokerista incallito, riscopre quel suo vizio antico per mondare il dolore della perdita dell’adorata figlia, portandosi dietro la piccolissima nipotina sistemata in un’amaca pieghevole, a dormire tranquilla e beata nelle stanze dell’appartamento privato in cui si giocava clandestinamente d’azzardo.

L’ultima parte del romanzo però sconcerta per l’assenza di verosimiglianza e di coerenza narrativa. Come se l’Autore avesse deciso di scrivere lui un libro inedito di fantascienza per pubblicarlo nella serie di Urania, di cui Probo, il padre di Marco, era un collezionista ossessivo e lettore affezionatissimo. Forse, scivolare nell’Utopia del Salvador Mundi al femminile può essere una risorsa per chi, anche se ricco e famoso, è costretto a vivere in un mondo malato come questo!


di Maurizio Bonanni