“Furore”: quando il populismo era ancora una chimera

martedì 26 novembre 2019


“Dust”, come l’Umanità in polvere. Furore ovvero I Frutti dell’Ira (The Grapes Of Wrath), capolavoro di John Steinbeck pubblicato nel 1939 in cui si racconta con una prosa tanto essenziale quanto sconvolgente il dramma di centinaia di migliaia di coloni con le famiglie al seguito, che abbandonarono il Midwest e l’Oklahoma colpiti da una terribile siccità e dalle conseguenti tempeste di sabbia (Dust Bowl). Allora, un esercito di contadini ridotti in condizioni di povertà estrema a causa dei raccolti andati distrutti fu obbligato a un esodo epocale in condizioni inenarrabili lungo la “Route 66” che porta in California.

Massimo Popolizio, in un reading memorabile, in scena al Teatro India di Roma fino al 1° dicembre, dà voce e grande pathos a quella che fu una delle più strazianti ricadute della Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street del 1929. Sullo schermo scorrono in contemporanea bellissime immagini struggenti dell’archivio fotografico dell’epoca con le loro carovane di straccioni, con volti di bambini tristi, affamati e laceri costretti a vivere in ripari di fortuna lungo i fossi irrigui e le rive fangose dei torrenti. Il racconto prende le mosse da un resoconto di viaggio che fece lo stesso Steinbeck visitando in California i campi dei baraccati. Quello che ne deriva è una storia molto più simile a ciò che si vede oggi nelle immense baraccopoli delle megalopoli africane e asiatiche, in cui le condizioni di vita e la mortalità infantile per malattie e denutrizione sono ancora altamente drammatiche.

Ci si chiede come sia stato possibile tutto questo. Con quale cinismo si sono lasciate letteralmente marcire centinaia di migliaia di persone nel Paese del benessere e del sogno americano? Com’è possibile che migliaia di bambini siano stati lasciati morire di dissenteria, malattie esantematiche e denutrizione, lasciandoli vegetare persino nei loro escrementi? Cito in merito il passo relativo di Steinbeck che fa riferimento alle abominevoli condizioni di vita in cui trovava una coppia di contadini con i suoi tre figli: “I bambini non vanno nemmeno più a fare i bisogni nel vicino boschetto di salici (utilizzato come latrina a cielo aperto da una comunità improvvisata e stracciona di centinaia di disperati, ndr). Semplicemente si piegano sulle gambe per defecare ovunque si trovino. Il padre è vagamente cosciente del fatto che la fanghiglia ai bordi del ruscello sia una coltura di parassiti. Sa che i suoi figli ne verranno contaminati camminando a piedi nudi. Ma lui non ha più né la volontà, né l’energia per resistere. Troppe cose gli sono successe”. Furore è anche e soprattutto un tremendo J’Accuse alla società capitalista dell’epoca, al rapporto squilibrato uomo-macchina dove è esclusivamente il profitto a dettar legge a costo di ridurre sul lastrico milioni di ex lavoratori della terra, con l’avvento del trattore e la creazione dei grandi latifondi che costringono all’esodo biblico mezzadri e contadini. E quel che è peggio è che questi americani a tutti gli effetti vengono trattati e scacciati come lebbrosi da altri americani, in tutto e per tutto uguali a loro per diritti di cittadinanza!

I passaggi di Steinbeck in cui si ravvisa il volto del “Mostro” (il capitalismo che ha già perduto fin da allora il suo volto umano) sono di una crudezza e chiarezza disarmanti, ritmati dalle percussioni dal vivo di Giovanni Lo Cascio, mentre sullo schermo scorrono le immagini stridenti dei benestanti e dei latifondisti che impediscono ai coloni affamati di coltivare un solo acro di terra incolta, ordinando ai loro vigilantes di aprire il fuoco su chi tenta al colmo della disperazione di cogliere senza autorizzazione un frutto dai loro alberi per darlo ai figli affamati: “E i rappresentanti (dei latifondisti e delle banche, ndr) illustravano ai coloni le necessità e il modo di ragionare del mostro che era più forte di loro. Se uno riesce a provvedere al suo sostentamento e a pagare le tasse, può conservarla, la terra, certo che può. Sì, ma se un anno manca il raccolto, la banca deve venirci in aiuto, coi prestiti. Oh, ma la banca o la società non può, diamine! Non è una creatura che respira aria, che mangia polenta. Respira dividendi, mangia interessi. Senza dividendi, senza interessi, muore, come morireste voi senz’aria o senza polenta”. Ma anche in questo luridume esistenziale senza fine continua a brillare la fiammella dell’umanità, come testimonia la bellissima immagine di colei che avendo partorito un figlio morto si allunga su un giaciglio di stracci per offrire il suo senso da latte a uomo in fin di vita per denutrizione.


di Maurizio Bonanni