“Se questo è un uomo”: l’umanesimo perduto al Teatro Argentina

venerdì 8 novembre 2019


Dov’è Auschwitz Birkenau? Nel territorio della Polonia occupata dai nazisti o in un Altrove mentale misterioso, presente nel cervello rettile dell’uomo ancestrale e forse nemmeno eretto? E quando accade che quei cromosomi silenti, quei geni apparentemente spenti si riattivino in base a inconoscibili processi epigenetici, per respingerci attraverso una finestra dello spazio-tempo nell’era che precede l’antropocene? A tutto ciò non c’è risposta. Tanto più che dal punto di vista scientifico sono falliti sino a oggi tutti i tentativi di provare l’esistenza dei “geni del male” (cfr. il bel libro dal titolo omonimo di Walter Tucci, Longanesi 2019). Per quanto riguarda il ritratto del “Male Assoluto”, poi, non esiste una sua rappresentazione definitiva e soddisfacente.

Così anche Valter Malosti nel suo monologo di Se questo è un uomo, in scena al Teatro Argentina fino al 17 novembre, ne dà una versione individuale presentandosi come l’uomo con la valigia: identico a quel Primo Levi che rientrò da straniero nella Torino dell’immediato Dopoguerra, armato del suo diario di prigionia e segnato per sempre da terribili, scientifici ricordi indelebili di un passato che la Ragione non può spiegare. La regia di Malosti ripercorre il testo letterale di Levi, racchiudendolo in una sorta di caverna primitiva simulata da uno scenario spettrale imbiancato di neve, su cui passano episodicamente con passo cadente due zombie inebetiti e ricurvi (due Häftling, come venivano definiti gli internati nei lager) divorati dalla fame e dalla dissenteria.

Ma, allora, dove origina questa immensa spinta energetica negativa che dall’accondiscendenza etico-morale, implicita o implicita, di intere società civilizzate (di recente: la Turchia con gli armeni; lo stalinismo con i genocidi di classe; Hitler con la sua “Soluzione finale” che dà origine alla Shoah) passa poi automaticamente allo strumento diretto per la realizzazione dello sterminio di massa, postulato da un’ideologia totalizzante in cui nel caso nazista si invoca la purezza della razza, e in quello staliniano la purezza ideologica? Risposta di Primo Levi: il senso del non-senso. L’insieme, cioè, di regole astruse del Lager come del Gulag fissate con criterio del tutto arbitrario ma auto applicative con le quali si smonta parcella dopo parcella l’ovvio quotidiano, per sostituirlo con un inferno terreno paradossale e persecutorio, in cui la vita di un uomo, il suo incarnato, la sua identità scolorano nell’oggetto annichilando il soggetto portatore dell’anima. L’internato diviene così un semplice “pezzo”, svuotato di contenuto e significato umano. Ma c’è di più: questa sua identità scomparsa e “cosificata” permette a coloro che ne custodiscono le spoglie scheletriche di godersi il conforto della propria vantata “superiorità”, osservando da vicino e con assoluta indifferenza la progressiva e inesorabile disumanizzazione degli internati. Il cibo è sopravvivenza. Quindi, se si costringe l’uomo a contendere persino le briciole di pane raffermo ad altri disperati come lui, il risultato è quello di asportargli chirurgicamente l’area corticale del pensiero.

La vita diventa una macina di mulino e un mulinello allo stesso tempo che sfarina l’esistenza e trascina nell’abisso dei forni crematori chi si è arreso all’ovvio: dai lager nessuno uscirà mai vivo. E invece, ci dice Levi, “Eppur si muove!”: anche nel peggiore dei gironi infernali della storia dell’umanità la scintilla dell’intelligenza e l’empatia dei neuroni-specchio non vengono nebulizzati all’interno delle camere roventi dei forni crematori. Così, Levi si ostina a spiegare Dante a un suo sfortunato compagno di sventura che parla un’altra lingua e, quindi, non capisce ma vive dentro di sé l’emozione della riscoperta dell’essere pensante. Così come colui che rinuncia a fare mercato degli effimeri beni disponibili, tozzi di pane duro e mozziconi di sigarette in particolare, per sentire rivivere dentro di sé l’emozione del dono e del donarsi disinteressatamente. Spettacolo decisamente imperdibile!


di Maurizio Bonanni