Ottima Guerritore ne “L’Anima buona di Sezuan”

lunedì 4 novembre 2019


Vi piace Brecht? Se sì, allora non potete mancare alla sontuosa messa in scena della sua opera epica “L’Anima buona di Sezuan”, in cartellone al Teatro Quirino fino al 10 novembre, per l’ottima regia e l’interpretazione di Monica Guerritore (Shen-Te, la prostituta, e Shui-Ta il suo alter ego maschile, vestito di nero) che si è ispirata all’edizione milanese del 1981 di Giorgio Strehler. Si domanda Brecht in questo dramma di grande intensità: come si sentono oggi (a nazismo dominante ed Europa in fiamme) gli Déi dell’Olimpo? Loro, i manichei, gli assolutisti, con un’idea stereotipata di Bene oscurato da questo oceano di Male imperante. Déi per i quali l’esistenza di un solo Buono può salvare il mondo corrotto, quello di un’umanità stracciona che si vende per poco o per nulla, sfruttata impietosamente dai precursori del capitalismo. Ma è nel raffigurare l’Autorità (di polizia, in particolare) che Brecht concentra la sua dose massiva di macchiettismo, evidenziandola con i gesti a scatto e le fischiate compulsive alla Mago di Oz del suo personaggio in divisa. Ma quella Shen-Te, eletta a modello e salvata dai debiti per un gesto eccezionale e irripetibile degli Déi che la riforniscono di una borsa ricolma di dollari d’argento, non è un Moloch di purezza come già faceva supporre il suo esercizio garbato del mestiere più antico del mondo.

No: Lei è come tutti gli umani una miscela di Puro e di Impuro, una concrezione granitica e indissolubile di contrasti insanabili eppur coabitanti, perché solo il Giorno del Giudizio può separarne, fondendola, la sua sostanza, come farebbe la fucina del vulcano con gli strati più profondi e coesi di roccia. Perché i tre Déi delle Virtù Cardinali rinnegano a torto il Quarto Dio denominato Il Male, senza il cui liquido di contrasto avverso l’ideale sublime di Bontà non si potrebbe mai fare la diagnosi dello stato del mondo e dell’anima dell’uomo. Peccano di ingenuità e di arroganza gli Déi nel voler pretermettere alla natura umana l’assiomatica dei Dieci Comandamenti. Che nemmeno lo stesso Dio evidentemente rispetta, se alla fine abbandona al suo amaro destino di solitudine e di colpa quella che lui stesso attraverso i suoi emissari ha ritenuto una creatura buona. Il dramma si svolge interamente all’interno di una coreografia di grandissimo effetto, con un palchetto rotante e piatto su cui girano le scene e i loro personaggi, che entrano ed escono da una sorta di scatola magica, sottile come una palafitta dagli assi montanti sbilenchi per troppa spinta laterale, scaffalata da sottili impalcature e contenitori metallici di tabacco.

La mano formidabile della regia fa muovere i suoi personaggi secondo gli stretti canoni brechtiani, un po’ Bauhaus di Schlemmer, ma molto Collodi con i suoi burattini sempre un po’ sbilenchi, dal passo lungo, lento, cadenzato e pesante (come un corpo che si trascina un’Anima impura, densa e massiva come piombo), autentica controimmagine né empatica, né maligna del Pathos interiore, così aderente a quel nostro Io segreto che assomiglia nel suo meccanismo di funzionamento a un legno storto, con il baricentro sempre un po’ fuori asse rispetto a quello dell’Homo Sapiens erectus. L’Uomo Burattino del Mondo che si crede a torto un burattinaio ma che si nutre di mortificanti ambiguità. Come l’androgino predatore nella figura dello speculatore immobiliare, che indossa scarpe da donna e leggins sotto la camicia. O come il proprietario della barberia: un satrapo invertito, bisessuale e vestito di bianco candido. Ed è Shui-Ta, il duale cugino perverso e cattivo di Shen-Te, l’attrattore pull-factor che popola di pesci carnivori il suo acquario di odio e vendetta, al quale si oppone disperatamente l’acquaiolo Wang (il miserabile un po’ imbroglione eletto in terra a messaggero divino) che lo accusa di aver fatto scomparire, e forse ucciso Shen-Te.

Come gli altri denuncianti, del resto: il profittatore e aviatore fallito senza aereo, Yang Sun, reo di non aver onorato la sua promessa di matrimonio con Shen-Te avendole sottratto le ricchezze a lei donate dagli Déi; sua madre istigatrice delle malefatte del figlio e disposta a perorare la sua causa davanti alle Autorità che lo sospettano di truffa. Solo la Vecchiaia si salva: lei che offre in prestito al Buono tutto ciò che ha e, per quel suo stesso gesto, causa la propria rovina economica. No, ha ragione Bertold: nell’Era di Mammona non si salvano nemmeno gli Déi!


di Maurizio Bonanni