Il “Cielo in una stanza” e viceversa. Che ci fa, infatti, una stanza nel cielo se non galleggiare come una mongolfiera con due a bordo che non toccano mai terra perché, come dice il titolo, hanno “Paura d’amare” e, soprattutto, di “amarsi”? Al Teatro Brancaccino di Roma Giulio Manfredonia dirige fino al 3 novembre Maria Rosaria Russo e Massimiliano Vado, che interpretano rispettivamente Frankie e Johnny (l’avvenente cameriera e il nuovo cuoco del ristorante in cui lavorano) della commedia originaria di Terrence McNally, divenuto nel 1991 un film di successo con Al Pacino e Michelle Pfeiffer per la regia di Garry Marshall. Ed è proprio il “Clair de lune” (famoso pezzo pianistico) di Claude Debussy a fare da ideale ponte tibetano tra due scogliere a picco sul mare: una rosa pallido, di una femminilità scolorita nel rancore di un ricordo fin troppo doloroso; l’altra grigia e rifugio di aquile di chi sbagliando una sola volta ha provato il carcere, facendo tesoro di quella sua esperienza fino a apprendere un lavoro e avere tempo a volontà per leggere i classici (Shakespeare, in particolare) conservati nella biblioteca dell’istituto penitenziario.

La pièce è una riduzione teatrale del film originario e allo stesso tempo rappresenta una forte dilatazione e proiezione all’esterno dell’opera di McNally, in cui lo spazio e il tempo si aprono all’intreccio complesso delle relazioni sociali di una vita normale: le feste; le riunioni conviviali; i vicini di casa “diversi” ma che si preoccupano e si occupano del benessere e della felicità del loro Prossimo. La versione di Manfredonia è come una danza un po’ scoordinata di circuiti neuronali in cui la sola cosa certa è l’innamoramento a prima vista di Johnny che pratica insoddisfatto il letto di un’altra cameriera, Cora, sorta di nave-scuola del sesso per i nuovi venuti del bastimento “Ristorante” in cui i fenotipi abbondano con le loro richieste sempre un po’ bizzarre, talvolta nevrotiche e maniacali di un pasto rapido, con gli ordini che circuitano come api impazzite sul bancone che divide la cucina dalla sala da pranzo. Ed è da lì che gli sguardi si interfacciano, si toccano per poi sfuggirsi in una sorta di rissa permanente dei sentimenti, tra gelosia, invidie, ingenuità da parte di chi, bruttina e zitella nata, per necessità e non per vocazione, vive e assorbe per buona parte le emozioni degli altri, non accorgendosi mai di come in realtà la sua bontà non sia contorno ma sostanza collante, con i suoi affacci estemporanei e le sue battute che legano le solidarietà sommerse del gineceo e riempiono di allegria un lavoro altrimenti nevrotizzante.

Ovviamente, tra i componenti fondamentali dell’impasto narrativo ritroviamo sia il king-maker dell’umorismo (un attore sul modello di Stefano Fresi, per intenderci) di un capocuoco dalle linee decisamente arrotondate, come il suo volto solare coperto da una barba folta da satiro; sia le interlocuzioni sistematiche del conduttore di una radio molto popolare di musica melò e soft che passa i brani più famosi di quei primi anni 80 dell’America del benessere.

Poi, ci sono gli ambienti, la cucina, la sala, la stanza da letto, che separano e cadenzano gli avvenimenti per consentire il lento disgelo di Frankie con gli imbarazzi della prima volta di due amanti, e un profilattico dimenticato a far da terzo incomodo e da parentesi di sospensione di una voglia assolutamente comune, sempre respinta ai margini dai paraurti della vita di lei ferita da contraccolpi indimenticabili rimasti tutti lì, nell’energia di deformazione di un guscio vivente che porta i segni permanenti della violenza domestica vissuta come un calice da bere fino in fondo, per troppo amore e molta paura. L’Amore e l’Odio qui si legano e si sciolgono con una reciprocità che sta tutta racchiusa nello Yin e lo Yang del Male e del Bene.

Aggiornato il 30 ottobre 2019 alle ore 12:24