Quando lo sport estremo è una competizione danzante

Che cos’è la vita? Una sorta di calembour tra mulino e mulinello: qualcosa cioè che macina, rimpasta le esistenze e le attira nel profondo. Ma più conosci l’abisso, meglio misuri la forza della virtù. Alla Teatro Sala Umberto, a Roma, prodotto da Alessandro Longobardi, va in scena fino al 6 ottobre per la regia di Giancarlo Fares, Non si uccidono così anche i cavalli?, dramma che Horace McCoy scrive nel 1935 e che il regista Sidney Pollack porta sul grande lo schermo nel 1969, presentando il film fuori concorso al Festival di Cannes, premiato poi con l’Oscar per il miglior attore non protagonista, a Gig Young. Interpreti principali e secondari allo stesso tempo, in quanto assoggettati a ritmi ora forsennati, ora più lenti da una musica senza fine accompagnata dal complesso strumentale Delpiji Electroswing Project e dalle canzoni scritte e musicate da cantautore Piji, Giuseppe Zeno e Silvia Salemi.

Al primo è assegnato l’ingrato compito (svolto con consumata, eccellente maestria) di dare un volto e una voce all’autorevolissimo e dittatoriale Maître de bal, carnefice, censore, voce narrante e sommo sacerdote di un crudele rituale per sacrifici umani. A lei, invece, malgré tout, spetterà la missione improba di riequilibrare e reintrodurre nello spazio scenico del racconto musicale il collante dei sentimenti, collocandoli nel loro spazio naturale, nelle azioni e nei pensieri della gente, tenuta per mano lungo la strada del martirio e del supplizio dalla strepitosa compagnia di ballo, canto e recitazione che aveva già ottenuto notevoli successi con Le Bal.

Alle loro figure, maschere danzanti e recitanti, è assegnato il compito di portare in scena quanto di peggiore e di migliore allo stesso tempo ci sia nella vita dell’umanità.  Ma il peggio dell’uomo, come invita a osservare Antonio Scurati a proposito dell’Onda Nera del nazifascismo e del totalitarismo in generale, non sta sul palco, in cui si muovono il dittatore e i suoi servi sciocchi, ma nella piazza-platea laddove un pubblico ridotto alla sua pancia si sbraccia, sbraita, fa il tifo, mostra il pollice verso. Esattamente a quanto accadeva duemila anni fa nelle arene dei gladiatori e al Colosseo, dove durante l’impero romano si consumavano le eviscerazioni e lo squartamento dei cristiani, donne incinte comprese di cui si apriva il ventre e si lasciava il feto così esposto alla mercé dei maiali introdotti sulla scena, mentre il tutto avveniva nella più totale accondiscendenza di un pubblico pagante ebbro e delirante per quel piacere di gustare il Male assoluto. Ecco: il dramma di McCoy ci dice che nulla è cambiato.

Preconizzando i tempi dei social, dei talk spazzatura e di quanto altro di antisociale offre quest’epoca scellerata priva di cultura e pathos, in cui l’apparire è il dominus, il Faust, l’anima dannata del desiderio di successo e del possesso senza limiti delle sue “banconote volanti”, le sette coppie che si muovono sul palco, ora simulando una folla, e poi via che il tempo passa (si arriverà a superare il record delle mille ore di ballo quasi ininterrotto) fino a ridursi a sette, e poi ancora al numero intero più una frazione di quegli sfortunati che sono rimasti da soli.

Secondo le “regole” (dieci minuti di pausa stabiliti ad arbitrio dal conduttore-mattatore, per i bisogni fisici, tra cui lavarsi, andare al bagno, dormire, fare all’amore; la categorica proibizione di staccarsi per più di dieci secondi dal partner), chi ha perduto il compagno o la compagna (di vita o di ballo cosa che, in quel contesto assurdo fa lo stesso), debbono cercare in sole 24 ore di trovarne un altro o un’altra, facendo il tifo perché qualcuno cada sfinito sulle proprie ginocchia e venga eliminato come un pugile suonato contando fino a dieci! La fatica, la tensione nervosa tendono a giocare l’eterno ruolo del disfattismo dentro lo schema “Homo homini lupus”, in cui ci si picchia, ci si spintona, si accende la rissa per non perdere nemmeno una posizione, perché il monstrum è arrivare primi a qualunque costo, rigorosamente a spese di tutti gli altri.

La sete di successo e soprattutto di riconoscimento per chi non ha nulla da mostrare se non il proprio corpo e le sue piaghe morali, che gli fanno da contenuto e da contenitore allo stesso tempo, rappresenta l’ostia, il vino del sangue per i grandi sacerdoti dello star system, registi, produttori, mecenati di ogni tipo. Sic transit gloria mundi. Ma com’è bello crocifiggere, in fondo, dato che se provi a portare in piazza la tua di croce personale, te ne torni ogni volta con una sempre più pesante di chi sta peggio di te! E non è detto che chi comanda comandi davvero: ogni burattinaio ne ha sopra di sé un altro, in un gioco di fili intrecciati senza fine! Spettacolo imperdibile!

Aggiornato il 06 ottobre 2019 alle ore 17:18