Ribelli siamesi /2. Utopia e realtà

giovedì 12 settembre 2019


Ormai, dopo la destalinizzazione, per molti giovani comunisti e socialisti la rivoluzione avrebbe dovuto prendere le mosse da prima di Stalin e andare oltre Stalin. Ciò che si proponevano era l’abbandono di una prospettiva politica liberale e parlamentare per procedere – come sostiene Danilo Breschi - a passi spediti verso “la democrazia diretta, sostanziale perché proletaria” la quale appariva loro come “la nuova meta di un comunismo tornato alla purezza delle origini”.

Proprio quella democrazia diretta che oggi sta tornando ad essere considerata come un orizzonte politico e un fine plausibile, quella democrazia diretta che aveva costituito un punto fermo persino nella Repubblica del Carnaro di dannunziana memoria, veniva allora recuperata da chi vedeva nel superamento rivoluzionario del sistema capitalistico e nella realizzazione della società senza classi la possibilità di realizzarla in via definitiva. Essa era vagheggiata dai giovani che dettero vita all’ondata protestataria della fine degli anni sessanta, da quegli stessi giovani che – come spiega Buchignani – guardavano “alla Cina maoista, alla Cuba castrista, al Vietnam, a tutta una cultura terzomondista, da Che Guevara ai Dannati della terra di Frantz Fanon”, prendendoli spesso come riferimenti cruciali in maniera acritica. Questi giovani, infatti, per un verso rifacendosi al vecchio massimalismo socialista e al leninismo, per altro all’anarchismo e alle altre matrici ideologiche sopra elencate, avviarono un laboratorio politico che avrà una notevole influenza sulla storia italiana fino agli anni di piombo.

In particolare, il paradigma leninista che tendeva a equiparare il capitalismo e le liberaldemocrazie occidentali a forme edulcorate di dominio fascista, e per cui era “necessario ingaggiare, su scala mondiale, una dura lotta contro la “piovra” capitalista”, fu tanto efficace e pervasivo che arrivò a permeare, anche sulla spinta della teologia della liberazione, alcuni settori del mondo cattolico, fino a indurli considerare il capitalismo degli anni sessanta come “una degenerazione della cultura moderna come lo è stato il nazismo, responsabile del secondo conflitto mondiale e della Shoah”.

 All’egemonia esercitata in ambiti sempre più vasti della società dai paradigmi marxisti-leninisti la cultura liberaldemocratica non seppe in quegli anni opporre una valida resistenza. Molti intellettuali di sinistra giunsero spesso a liquidare qualsiasi obiezione riproponendo tali paradigmi come gli unici evidenti, fino a concludere, come in un editoriale di Potere operaio del 20 Dicembre 1967, che socialdemocrazia e fascismo apparivano chiaramente come “due facce della stessa medaglia, lo sfruttamento capitalista”. Più in generale, la democrazia parlamentare, la democrazia borghese, vengono viste in quegli anni da molti giovani appartenenti ai gruppi extraparlamentari di sinistra come maschere per coprire il sostanziale volto fascista della società capitalistica.

Il Pci prenderà da loro le distanze con una certa energia nella seconda metà degli anni settanta, quando la stagione del terrorismo era già iniziata: Renato Zangheri, sindaco comunista di Bologna, li definì “teppisti”, Lucio Lombardo Radice “nuovi squadristi”. Per Enrico Berlinguer con costoro non era “possibile stabilire un dialogo”, in quanto “lucidi organizzatori di un nuovo squadrismo”, essi “non sono definibili con altro termine se non quello di nuovi fascisti”.

Eppure il Pci, rispetto a questa situazione da cui ora prendeva le distanze, non era esente da responsabilità. Alberto Ronchey, al riguardo, “non manca di osservare come “nella base militante del Pci, malgrado il costituzionalismo dello stesso Togliatti, l’attesa dell’ora X e la doppiezza dei tempi di Pietro Secchia hanno avuto conseguenze prolungate, fino alle Br”,” mentre secondo Enzo Bettizza “le ragioni, seppure distorte, dei brigatisti, hanno una radice duplice nel millenarismo di due chiese, nel terzomondismo palingenetico, nel leninismo di guerra, nel maostalinismo quale fu praticato dai guerriglieri vietnamiti sul fronte e nelle retrovie: tutti spezzoni di fedi rivoluzionarie “liberatrici” che per anni videro concordi pietisti cattolici e stalinisti, e che ora ritroviamo, come raffreddati e stravolti, nell’ideologia di guerriglia delle Br”.

Tuttavia, durante tutto l’arco di tempo preso in esame dal saggio di Buchignani la tanto auspicata rivoluzione socialista in Italia non si realizzò. Come “ebbe a rilevare in un’interessante autocritica il primo pentito delle Br, Patrizio Peci, per fare la rivoluzione, nell’Italia del capitalismo avanzato, “mancava la fame”, elemento fondamentale che l’aveva resa possibile altrove, in paesi arretrati”, e cioè esattamente dove Marx pensava che non si sarebbe mai verificata. La fame non era mancata né durante la rivoluzione di Ottobre nel 1917 né in tutte le altre rivoluzioni socialiste andate a buon fine. Il famigerato sistema capitalistico, pur avendo contribuito a produrne in gran quantità, specialmente nel terzo mondo, al suo interno non ne aveva prodotta in quantità sufficiente per determinare risoluzioni politiche di tale portata.

Senza la fame anche l’utopia millenaristica che animò, seppur in modi diversi, comunismo, anarchismo e persino certe componenti del fascismo rivoluzionario del ventennio era destinata a rimanere tale. A questo proposito, può risultare illuminante un testo dello scrittore fascista Marcello Gallian (sul quale Buchignani ha scritto un’importante monografia), per il quale “il comunismo è l’avvento della gratuità, scomparsa del denaro, del valore di scambio, fine della peste mercantile che ha pervaso ogni piega dell’esistenza umana. Abolizione dell’economia con tutte le sue categorie: salario, prezzo, profitto […] soddisfazione illimitata dei desideri e dei bisogni umani, realizzazione piena della libertà di vivere secondo il proprio piacere e le proprie inclinazioni”.

Proprio quest’immagine estrema, radiosa e quasi edonistica del comunismo può fornire le ragioni del successo della sua idea e dell’insuccesso della sua pratica, fornendoci anche l’occasione per una breve chiosa al saggio di Buchignani, che ha il grande merito di fornire un quadro articolato ed esauriente delle relazioni intercorse tra tipologie opposte di radicalismo politico e rivoluzionario in Italia.

Ora, se confrontassimo il tipo di società descritta da Gallian con qualsiasi società storica - operando quello che Benedetto Croce ebbe a definire un “paragone ellittico” - quest’ultima non potrebbe che sembrare, al confronto, ingiusta, spaventosa e spietata. Dunque, qualsiasi azione sia volta a realizzare una civiltà alternativa a un simile orrore sociale e politico non solo è moralmente lecita, ma rischia di risultare anche moralmente e politicamente doverosa. Anche qualora dovesse determinare qualche migliaio di morti, cosa potrebbero mai rappresentare in paragone alle innumerevoli sofferenze e ai morti, computabili nell’ordine di milioni di persone, che il capitalismo produce ogni anno in tutto il mondo?

In questo senso i terroristi degli anni di piombo non furono incoerenti, come non lo furono molti “ribelli” nostrani del Novecento. L’errore era essenzialmente nelle premesse, e le premesse non vennero quasi mai messe in discussione non solo, com’era ovvio che fosse, dagli intellettuali della sinistra massimalista o comunista, ma nemmeno, dagli ideologi e dai leader più nascosti di quella destra neofascista che poi imboccò il percorso dello “stragismo nero”, semplicemente perché anch’essi partivano spesso dal presupposto – già cavalcato dalla retorica fascista del ventennio – della necessità di contrapporsi alle “plutocrazie occidentali”, globaliste ante litteram, e più in generale ad alcuni aspetti della “modernità” che erano considerati  deteriori, per poter operare una rivoluzione culturale e politica che favorisse l’accesso ad una vera identità di popolo e alla conquista di un prestigio nazionale che fosse idoneo a rappresentare e promuovere proprio quei valori, spesso regressivi più che conservatori, che tale rivoluzione avrebbero ispirato.

In verità, infatti, il “paragone ellittico” cui la dottrina comunista surrettiziamente induce secondo Croce risulterebbe efficace anche se applicato alle ideologie neofasciste, in quanto anch’esse sono teorie palingenetiche, ovvero teorie che ipotizzarono la possibilità di realizzare in terra una società che, dal loro punto di vista, poteva risultare ideale e pressoché perfetta. Essa avrebbe infatti potuto instaurare un “ordine nuovo” che, come nella concezione di Julius Evola e Pino Rauti, sarebbe stato “radicalmente alternativo a quello esistente, dominato dalle forze negative del capitalismo, del comunismo, della democrazia politica, generate dalla civiltà materialistica dell’umanesimo, del rinascimento, dell’illuminismo; forze incarnate, nel presente, al massimo grado, dall’Urss e dagli Usa, responsabili della sconfitta del nazifascismo”.    

Per quanto ispirate a valori diversi e per molti versi opposti, a entrambe queste prospettive politiche il “paragone ellittico” di cui ci parla Croce (e che Gramsci commenta criticamente) sembra fornire implicitamente la giustificazione etica per passare dalla teoria alla prassi, ma in modi radicalmente diversi: nel caso dei movimenti d’ispirazione neofascista l’ideale è rappresentato da un tipo di società che è imperniata sulla forza, l’ardimento e il sacrificio, e in cui l’uso sistematico della violenza verso chi può essere considerato, a qualsiasi titolo, un corpo estraneo, è visto in maniera positiva e identitaria; nel caso invece dei movimenti rivoluzionari d’ispirazione socialista l’azione rivoluzionaria violenta, anche terroristica, rappresenta un mezzo necessario per raggiungere un fine radicalmente diverso ed opposto: quello di una società priva di violenza, da cui sia eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e regni finalmente la giustizia.

In una prospettiva socialista, l’uso della violenza può essere giustificato solo per conseguire questo fine, e non in maniera incondizionata, ma solo se l’analisi da cui l’azione politica prende le mosse induce a ritenere che tale azione sia effettivamente in grado di andare a buon fine e conseguire il suo scopo. In questo caso, si potrebbe trarre in maniera conseguenziale, dal paragone tra società ideale, ma possibile, e società reale, la legittimità di un passaggio all’azione violenta.

A differenza di quanto vale in questi due contesti ideologici radicali ed estremi, da un punto di vista liberaldemocratico l’azione politica violenta, pur essendo legittima in paesi illiberali, dove i cittadini non dispongono di alcuna possibilità legale di far valere le loro idee ed opinioni, non potrebbe mai essere ritenuta ammissibile in paesi che hanno già assunto nelle loro carte costituzionali i principi della democrazia liberale, ovvero in quei paesi in cui ai cittadini è consentito esercitare liberamente i propri diritti civili e politici. Là dove esiste la libertà di scegliere il tipo di governo in modo democratico, non può infatti essere ammesso l’uso della violenza per determinare chi debba governare o le scelte politiche di un governo già insediato, dato che questo comportamento implicherebbe la sottrazione ad altri cittadini delle stesse libertà e gli stessi diritti di cui nessuno vorrebbe essere privato.

Ma è proprio questo il punto: quando si arriva a considerare, come avveniva per molte ideologie rivoluzionarie d’ispirazione marxista e leninista, una simile libertà solo apparente, se si giunge a considerarle – sulla scia di Marcuse e della Scuola di Francoforte - come l’effetto anestetizzante e tossico di una civiltà imperniata sulla logica del profitto che ha obnubilato in maniera silente e strisciante le coscienze, ogni reazione o strategia volta a combattere tale logica in maniera efficace diventa legittima.

(2. Continua)

La prima parte del saggio è disponibile qui


di Gustavo Micheletti