Silenzio: vietato disturbare il totalitarismo della sinistra nella scuola

venerdì 9 agosto 2019


Che l’ideologia di sinistra abbia, da almeno mezzo secolo, conquistato tutte le istituzioni della formazione, da quelle scolastiche all’Università, è una verità acclarata, una realtà consolidata e quindi una ovvietà che non sarebbe neanche il caso di menzionare, se non accadessero, quotidianamente, episodi che confermano quella occupazione e che suscitano lo sdegno, lo sconcerto, talvolta la reazione ma più spesso soltanto l’avvilimento, da parte di chi non è di sinistra e non ritiene che quel dominio debba essere un dato di fatto naturale, come viene spacciato dalla vulgata ideologicamente corretta, un frutto cioè della presunta superiorità della sinistra nel campo culturale in generale. La politicizzazione nelle nostre scuole, oggi forse meno sfacciata di un tempo ma non meno invasiva e pericolosa, è risaputa da chiunque abbia a che fare con l’ambito dell’istruzione: studenti, docenti, genitori. Si tratta di un lavoro di pazienza e di tenacia, capillare e giornaliero, fatto con astuzia e con arroganza, con una prassi aggressiva e intimidatoria, che isola gli avversari con vellutati cordoni sanitari o, nei casi più resistenti, con pressanti ricatti culturali.

Questa realtà di dominio e sottomissione è nota a tutti, a chi la subisce e a chi la crea, anche se questi ultimi la negano fino all’estremo e fino a cadere nel ridicolo. Una realtà corrotta, che dovrebbe – e che sarebbe dovuta da decenni – essere combattuta e modificata non solo dall’intervento delle forze politiche liberalconservatrici e antitotalitarie, bensì anche dal buon senso collettivo. Ma le prime non hanno mai avuto né il coraggio politico né l’energia culturale per farlo e sono state sempre vittima di un complesso di inferiorità e sudditanza nei confronti della sinistra, mentre il buon senso è stato a tal punto manipolato e frastornato da quella stessa sinistra detentrice del potere culturale, che a un certo punto è sembrato naturale che la cultura e la formazione scolastica fossero controllate dalla sinistra. Questo è il risultato di decenni di lavaggio del cervello a cui la sinistra culturale e politica ha sottoposto lo spazio pubblico italiano (e più in generale europeo).

Ciò che accade nelle aule scolastiche (il caso di quelle universitarie è diverso, per struttura e per modalità, ma dal medesimo tenore ideologico) è noto a tutti, ma a causa di un profondo timore, reverenziale o terrorizzato che sia, solo pochi osano rivelarlo. Nessun reato, sia chiaro, ma una pressione, costante e sistematica, sulla psiche degli alunni e del loro intorno, famiglie e amici, per instillare con lentezza e morbidezza le categorie mentali di quel paradigma così dannoso che viene definito il «politicamente corretto».

E il tutto va inserito in un quadro di progressivo abbassamento del livello culturale dell’insegnamento che, secondo logica, è causato da un proporzionale calo culturale degli insegnanti stessi. Già questa è una situazione paradossale: i presunti detentori della cultura, nelle scuole, insegnano poco e male, come risulta evidente da un riscontro universitario che illustrerò fra poco. Ed è paradossale che dinanzi a questa realtà oggettiva, i suoi responsabili scarichino le colpe su altri soggetti sociali (famiglie, tv, social media ecc.) che, in questo caso specifico, non hanno colpa. Ma anche questa stravaganza è spiegabile con le strutture di fondo dell’ideologia sinistrorsa: negare perfino l’evidenza, mentire sempre nello scontro politico, nel confronto culturale, nel dialogo psicologico.

A partire dalla differenza tra demagogia e pedagogia, che evidentemente sfugge a moltissimi insegnanti italiani, fino ad arrivare alle discipline culturalmente modificate dal buonismo, dall’esaltazione dell’altro e dalla denigrazione della propria identità, la scuola è in uno stato comatoso. Questa è la fotografia, desolante: povertà culturale e disorientamento mentale, riflessi della più ampia sfera nazionale ed europea. I sessantottini e i loro epigoni hanno contribuito nel modo più rilevante a generare il caos di cui la società italiana ed europea – e quindi la nostra scuola – è vittima, e hanno ancora la sfrontatezza di addossarne la colpa ai loro avversari politici, a quel liberalconservatorismo che da sempre spinge invece per un rigore che faccia uscire l’insegnamento dal lassismo a cui quegli ideologi l’hanno condotto.

È noto che la qualità dell’insegnamento scolastico è talmente scarsa da far emergere forme di analfabetismo di ritorno. La prova incontrovertibile di questo decadimento è che le matricole universitarie dei dipartimenti umanistici non solo conoscono a malapena le varie discipline (filosofia, storia, letteratura), ma conoscono poco perfino l’italiano. Al punto che per le matricole i dipartimenti sono costretti a organizzare test di comprensione della lettura, e in moltissimi casi i risultati sono deludenti (in alcuni, ma non pochissimi, sono addirittura disastrosi). Ma questi studenti non sono arrivati da paesi stranieri; si sono diplomati nelle scuole italiane, e la responsabilità della loro ignoranza, dell’ignoranza tecnica e non di quella sociale, non è del mondo circostante, dei media o dell’intrattenimento, ma degli insegnanti. Questa colpa non è un’ipotesi, ma una verità di fatto, e anche una deduzione inconfutabile: gli insegnanti non insegnano a sufficienza, se ai primi anni degli studi universitari i loro ex-alunni devono imparare ciò che avrebbero dovuto conoscere, ciò che un tempo tutti conoscevamo. E ancora trovano il modo di fare gli orientatori politici? Oppure, altra deduzione logica, proprio perché fanno i demagoghi non riescono a fare gli insegnanti. Tertium non datur.

In questa situazione di monopolio politico-culturale, quando qualcosa sfugge alle maglie ideologiche o qualcuno si ribella a quell’imposizione, si alzano proteste vibranti e veementi appelli in difesa della democraticità delle nostre scuole minacciata da chi, semplicemente e legittimamente, ritiene che la misura sia colma e che, per il bene degli alunni e della società nel suo insieme, bisogni agire per eliminare quella nefasta dominazione e ripristinare l’autentica libertà della scuola, la libertà dalle ingerenze ideologiche e dalle intimidazioni culturali e perfino morali, con cui invece una sinistra illiberale e totalitaria ha intasato la scuola (e più in generale tutti gli ambiti della vita civile) istituendo un’autentica dittatura culturale.

Immaginiamoci dunque quali sono state le proteste che i custodi di quella rigida ortodossia e di quella spudorata faziosità hanno lanciato quando qualche giorno fa il sindaco di Monfalcone, Anna Maria Cisint, ha scoperchiato ciò che doveva continuare a rimanere occultato dall’esercizio di quell’omertà, volontaria o estorta, che circonda la vita scolastica italiana da almeno quarant’anni, da quando cioè i sessantottini e poi i loro figliocci se ne sono impadroniti. Rilevando che in alcune scuole della sua città si sono riscontrati episodi riconducibili a quelle azioni ideologiche sopra descritte (e dunque affermando ciò che chiunque sa), il sindaco leghista ha, con coraggio politico e con coscienza di madre, deciso di assegnare al già esistente garante per i diritti dell’infanzia e degli adolescenti una funzione sia di raccolta delle segnalazioni per propaganda politica e pressioni psicologiche a fini politici, sia di valutazione delle proteste stesse.

Un sindaco, organo comunale apicale democraticamente eletto, che ricorre a un garante dovrebbe essere lodato per la coscienza civile che dimostra, perché il garante è una figura terza che per definizione dovrebbe essere accettata da tutte le parti politiche e sociali, e invece ecco che la vecchia patologia della sinistra riemerge con violenza a condannare quella decisione come una intromissione politica (da parte della Lega) in ciò che essa considera, evidentemente, come una sua proprietà, un suo feudo, secondo il principio funzionale dei regimi totalitari. Reazione sgangherata ma coerente con la logica del politicamente corretto, di quello che Richard Millet ha definito il «totalitarismo angelico» della nostra epoca. La sinistra si riempie la bocca e ottunde i nostri orecchi con la retorica della garanzia e della trasparenza, dell’apertura e della condivisione, ma quando un garante è voluto dalla destra, viene rifiutato, perché rappresenta una minaccia al potere accumulato e consolidato in tanti decenni di raggiri culturali e di ricatti psicologici.

Fa bene dunque, anzi benissimo, il sindaco Anna Maria Cisint a denunciare questi ribaldi, militanti in servizio permanente effettivo, spacciatori di teorie false e di idee ignobili, pseudointellettuali che coltivano l’ignoranza e l’accidia mentale perché è con esse che possono imporre la loro ideologia. A costoro bisogna contestare l’uso ideologico e perciò sempre personale di una struttura pubblica, di un’istituzione, e squadernare le loro mancanze e le loro colpe, che si incarnano in quegli studenti che vediamo arrivare all’Università come se fossero usciti dalla terza media. 

Il provvedimento del sindaco di Monfalcone è il segnale che qualcosa sta cambiando nei riguardi di una sfera che la sinistra considerava intoccabile. Alcuni mesi fa, per restare ancora nell’estremo nord-est, l’assessore all’istruzione della Regione Friuli Venezia Giulia, Alessia Rosolen, alzò una barriera contro il progetto di introdurre nelle scuole di quella regione alcuni film di propaganda gender, che con l’apparenza di insegnare il rispetto per l’altro instillavano il disprezzo per il sé, l’apologia di tutto ciò che è «trans» e la dissoluzione dell’identità, anche di quella sessuale. Con il peso dell’istituzione e con estrema determinazione personale, l’assessore Rosolen riuscì a impedire l’introduzione subdola di contenuti illiberali che veicolano il totalitarismo gender e tutto il codazzo LGBTQ (acronimo di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e queer ossia eccentrico rispetto alla normalità sessuale) che lo segue. Ma non sempre queste giuste reazioni hanno successo, perché dove manca il supporto governativo locale liberalconservatore e la conseguente libertà delle persone di esprimersi contro la dittatura culturale della sinistra, l’impresa è ardua, spesso impossibile.

Oggi, nei casi citati come esempi, i soliti indignati protestano, denunciando un’invasione della politica nelle scuole. È una scena incredibile, grottesca: i sinistri che hanno occupato quasi militarmente l’istituzione scolastica italiana accusano di ingerenza politica un sindaco che sfida quella egemonia non imponendone una diversa, ma facendo tutto l’opposto: semplicemente esigendo trasparenza, fornendo a studenti e genitori la possibilità di segnalare a un garante imparziale casi di politicizzazione della vita scolastica da parte di insegnanti ideologizzati. Non c’è limite alla malafede. Quando si tratta di proteggere le rendite di posizione, la sinistra riesce a fare capriole logiche da far inorridire Aristotele. Si potrebbe dire che è davvero senza vergogna, se la cosa non fosse ancora peggiore: qui si cela la prassi della menzogna, usata sistematicamente in qualsiasi occasione e in qualsiasi contesto. E si manifesta così ancora una volta l’intima essenza di quell’ideologia che, dal marxismo-leninismo in poi, passando dal Sessantotto, ha infestato la vita sociale europea: ciò che è di sinistra dev’essere accettato e praticato, ogni dissidenza dev’essere neutralizzata, e chiunque osi denunciare questo circolo vizioso della logica e della morale diventa un nemico da abbattere. E’ la prassi della menzogna e della persecuzione; schema semplice, penosamente semplice, e tuttavia ancora efficace, perché la falsificazione della realtà che la sinistra ha sempre praticato, la menzogna come metodo di azione politica e culturale ha prodotto frutti tanto avvelenati da uccidere o almeno da tramortire le capacità di critica e di reazione in chi ne viene colpito.


di Renato Cristin