“Mai più senza maestri”: Zagrebelsky vs Weber

martedì 6 agosto 2019


Tre per Gustavo Zagrebelsky nel suo “Mai più senza maestri” (il Mulino, 2019) sono i tipi di insegnamento del maestro, vale a dire di colui che è “più grande”, come rivela l’etimo magis; la trasmissione della conoscenza, dell’interpretazione di ciò che è stato conosciuto o della sua giustificazione (o riprovazione). Tripartizione, questa, come precisa l’autore, nient’affatto rigida, ma che pure conserva una sua plausibilità euristica se, ad esempio, permette di speculare ancora una volta sui diversi ambiti dell’istruzione e dell’educazione.

Se la prima, insegnava Condorcet nelle sue “Mémoires sur l’instruction publique” del 1791, ha il compito di combattere l’ignoranza senza imporre valori e non poteva quindi che considerare i principi repubblicani e rivoluzionari come mero fatto, obbligo esteriore e non come nuovi idoli cui aderire intimamente, la seconda esige l’indottrinamento, come sta a testimoniare il rapporto sull’istruzione presentato l’anno prima alla Costituente da Talleyrand, in cui si auspicava che Costituzione e Déclaration des droits costituissero “per l’avvenire un nuovo catechismo per la gioventù», da impartire fin “nelle più piccole scuole del Regno”, catechismo che “imprimesse per sempre dei sentimenti nuovi, dei costumi nuovi, delle abitudini nuove”. Da qui, annota Zagrebelsky, “a propugnare la creazione di un orwelliano Ministero della morale e dell’istruzione sotto la sorveglianza dei rappresentanti della nazione, il passo è breve”, passo che sarebbe stato compiuto recentemente anche dalle nostre parti con l’introduzione nelle scuole della disciplina Cittadinanza e Costituzione, il cui documento d’indirizzo rappresenterebbe una manifestazione “esemplare dei pericoli di indottrinamento”.

A chi, poi, dovesse provare smarrimento e vertigini all’idea di un insegnamento che trasferisca conoscenza e non anche valori, Zagrebelsky replica, con Bobbio, che anche un’istruzione scrupolosa forma la personalità poiché indica “la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare […], il senso della complessità delle cose”.

D’altronde, aggiunge il professore emerito, anche il maestro che dovesse coltivare il fine di orientare i propri allievi sulla base di una specifica tavola di valori (il ricordato insegnamento come giustificazione), valutando evidentemente il pensiero solo come un bene strumentale all’azione, non dovrebbe quantomeno nascondere l’esistenza di altri universi ideali. Anche qui, insomma, il maestro leale non potrebbe rinunciare a “valutazioni comparative”.

L’argomentazione di Zagrebelsky sembra svilupparsi chiaramente, la distinzione tra istruzione ed educazione come anche la presentazione delle varie tipologie di insegnamento appaiono limpide. Poi, nelle pagine iniziali del terzo capitolo, dedicato ai “Maestri e discepoli”, registriamo una qualche incertezza. Forse preoccupato delle conseguenze socialmente indesiderabili cui potrebbe condurre il maestro votato esclusivamente alla diffusione della conoscenza e indifferente ai valori, Zagrebelsky mette in ombra la tripartizione di cui sopra e osserva che ogni maestro, anche quando crea divisioni e rotture, “è un costruttore che riallaccia fili dispersi in modo nuovo; è un ‘filo’ a sua volta, cioè uno che cerca di essere e creare una continuità: può torcersi, ritorcersi, annodarsi, sciogliersi, ma non deve spezzarsi”.

Più rigorosa, perché più radicale, ci sembra la posizione di Max Weber, pur citato nel pamphlet, secondo cui lo scienziato sociale (il maestro dedito alla trasmissione della conoscenza di Zagrebelsky) di fronte ai suoi allievi deve ripudiare ogni torsione strumentale della ricerca, ogni suggestione etico-pedagogica e interesse mondano volti a rigenerare e legittimare specifici sistemi politico-istituzionali. Lo scienziato sociale, per Weber, in aula non deve promuovere alcun processo di nation building.

Nella conferenza tenuta nel novembre del 1917 di fronte a un pubblico studentesco, e poi pubblicata con il titolo “Wissenschaft als Beruf” (“La scienza come professione”), lo studioso tedesco affermava che “quando si parla di democrazia in un’assemblea popolare non si fa mistero delle proprie convinzioni personali. Anzi, proprio quello di prender partito in maniera esplicita e riconoscibile è il terribile compito e dovere di questo genere di riunioni. In esse le parole non sono strumenti dell’analisi scientifica, ma della lotta politica per conquistare l’opinione altrui. Non sono vomeri per dissodare il terreno del pensiero contemplativo, ma spade da usare contro gli avversari, strumenti di lotta. Utilizzare le parole in questo modo durante una lezione o in un’aula universitaria sarebbe sacrilego. Se per esempio si parla della “democrazia”, si procederà a studiarne le diverse forme, ad analizzare il modo in cui esse funzionano e a stabilire nei dettagli quali conseguenze comportino nelle condizioni di vita, quindi le si contrapporrà alle altre forme di ordinamento politico, quelle non democratiche, cercando di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore è messo in grado di prendere posizione autonomamente in base ai propri ideali. Ma il vero maestro si guarderà bene dall’imporgli ex cathedra una qualsiasi posizione particolare, sia esplicitamente, sia per suggestione, che è naturalmente la forma più disonesta di imposizione”.

Per Weber, infatti, l’individuazione “dei dati di fatto” e dell’“intima struttura dei fenomeni culturali” e la decisione “su come si debba agire nella società civile” sono “due ordini di problemi totalmente eterogenei”. Così, proseguiva Weber nella conferenza, “ovunque l’uomo di scienza giunga col proprio giudizio di valore, lì cessa ogni comprensione dei fatti”. Lo scienziato sociale, dunque, tra le mura dell’Accademia nulla può dire a favore della democrazia né, aggiungiamo noi, contro la tirannia se, come credeva Weber, quelle sociali sono scienze descrittive e non normative. Siamo lontani, a ben vedere, dal maestro “costruttore” di “continuità” di Zagrebelsky.

Si potrebbe obiettare che Weber non fece in tempo a vedere gli orrori dei totalitarismi e che quindi quelle parole rivolte agli studenti di Monaco siano oggi irrimediabilmente datate e superate. Se così fosse, dovremmo allora ammettere che tra gli innumerevoli crimini commessi dai regimi antidemocratici tra le due guerre mondiali ci sia anche quello di aver compromesso per sempre la possibilità di edificare una scienza autonoma da condizionamenti e prescrizioni etico-politiche.

 


di Luca Tedesco