“Baby Gang”, un film non retorico sulle periferie

lunedì 22 luglio 2019


L’unica concessione retorica al pensiero mainstream da telegiornale è nel titolo: “Baby Gang”. Che d’altronde serve e non poco ad acchiappare curiosità ed eventuali spettatori. Per il resto però questo piccolo capolavoro di Stefano Calvagna, girato a dir poco in economia, con attori presi dalla strada (Corviale e dintorni) e senza neanche una vera e propria sceneggiatura (e senza contributi statali o regionali), è finalmente un film di rottura con il linguaggio dominante quando si affrontano i temi della periferia e della delinquenza minorile: poco apocalittico e molto integrato. Si potrebbe dire. Un mondo a parte dove esistono regole ferree ancorché non eticamente condivisibili. Tra cui quella che il tradimento dell’amico non è tabù se si deve sopravvivere. La violenza come hobby, la rapina, la prostituzione minorile e lo spaccio di droga come lavoro e come routine. Descrittivo ma non lento, crudo ma non melodrammatico. Non piagnone, soprattutto. Ognuno è quello che è. Consapevole di esserlo. Punto.

E sono quello che sono anche gli adolescenti di questa periferia che ogni giorno si inventano la giornata in maniera criminale. Né si può parlare di adulti che li traviano, visto che spesso i maggiorenni delinquenti sono le prime vittime delle loro vendette. Piuttosto c’è una complicità istintiva tra ragazzi e ragazze che si trovano a dovere sbarcare il lunario tra rapine di negozi e di clienti delle baby prostitute. Ovviamente finché non ci scappa il morto. Anzi, i morti. Prima quelli provocati dalla vendetta per un pestaggio di uno dei ragazzi in questione, poi quello di uno dei protagonisti del film ucciso alle spalle da un cliente di una baby squillo che era stato appena rapinato.

Ma la morte viene vissuta come un fenomeno ineluttabile e questi ragazzi che credono di potere fare uscire il loro amico accusato di triplice omicidio convincendo lo psicologo a fare una perizia falsa non si lamentano mai. Hanno, pure nel linguaggio, un’insospettabile dignità che sconfina con il giudizio morale su tutte le brutture che li circondano e che condizionano il loro agire. Tutto questo senza gli eccessi verbali e di azione visti in film come “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Per questi e per altri motivi “Baby Gang” è in fondo un unicum nel suo genere. E vedremo, nei prossimi anni, quanti altri registi riusciranno a cimentarsi nel campo di gioco delineato da Stefano Calvagna. Che ha fatto un signor film praticamente senza aiuti economici da parte di nessuno. E anche questa è una notizia.


di Dimitri Buffa