“Sir, Cenerentola a Mumbai”, l’amore in India

Chiamami con il tuo nome! Così disse Psiche ad Amore. Quindi, in teoria, il confine tra i due dovrebbe essere tracciato dal solo raggio di luce che ne illumina le anime, solo se i protagonisti non vivessero all’interno dell’invisibile cortina di ferro che, come le alte mura di un complesso labirinto, separa tra di loro le caste dell’India moderna, in cui il diritto si arresta sulla soglia dei pregiudizi e degli interdetti plurimillenari. Rohena Gera nel suo bel lungometraggio, “Sir - Cenerentola a Mumbai”, con Tillotama Shome (Ratna) e Vivek Gomber (Ashwin), lo spiega benissimo alle numerose e petulanti anime belle che popolano questo nostro stanco, iniquo e sterile Vecchio Continente. Qui, da noi, la mancanza delle culle si sposa drammaticamente con la presa d’atto lacerante e dolorosa dell’avvenuta (irreversibile?) sterilizzazione nelle nostre società dai sentimenti umani profondi, dal culto del pudore e dall’assoluta necessità di non perdere mai il rispetto e la stima della società che ci circonda. In India invece si continuano a elaborare e tessere rapporti che scorrono su di un filo sottile teso al di sopra dell’abisso di “Che cosa dirà la Gente?”. Una società quella indiana contemporanea che conserva nelle sue parti più povere e miserabili tutti i colori e i profumi intensi che ci restituiscono la sua paradossale, immensa gioia di vivere.

Anche lì però il mostro urbano di ferro e cemento, con le sue orrende architetture verticali che divorano l’equilibrio ecologico e trasformano gli oceani in discariche, intona una cupa messa da requiem che estende progressivamente il suo grigiore mortale agli affollatissimi, gioiosi e insalubri quartieri popolari di case basse e lamiere. L’anonimo alveare degli scheletri dei grattacieli in costruzione tende a spegnere progressivamente con la sua odiosa razionalità i colori sgargianti dei mercati di stoffe, dei banchi di frutta, dei distributori ambulanti di bevande, dei risciò e dei mezzi di trasporto così invecchiati, sempre pericolanti, piegati su di un fianco, ma così carichi di vita e di allegria sostanziale manifestata in ogni momento della giornata da un immenso popolo, che utilizza esclusivamente il trasporto pubblico per la propria sopravvivenza. Ratna, la serva, appartiene alla periferia contadina dell’India: rimasta vedova dopo solo due anni di matrimonio avendo sposato un uomo malato a sua insaputa (perché, poi, da quelle sue parti, genitori, suoceri fratelli e cognati hanno diritto di vita e di morte sulle giovani donne della famiglia!) a seguito di un matrimonio combinato, ha avuto la grande fortuna di essere chiamata da una “madame” di una famiglia molto ricca di Mumbai a servire in casa, e poi “ceduta” a un figlio, il “Sir”, tornato dall’America per seguire gli affari di famiglia dopo la morte del fratello.

Sir che ha visto naufragare il proprio matrimonio (non combinato!) proprio il giorno delle nozze e rientra sconfitto e solitario nel suo bel condominio sorvegliato da guardie private. Da qui la regista svolge la sua affascinante e sottile trama, fatta di passaggi ripetitivi e ossessivi, concentrati nei vari rituali domestici, in cui l’infaticabile Ratna rassetta, prepara pranzi, serve bevande al Sir e ai suoi amici mentre coltiva il grande sogno di divenire sarta, fare la stilista e far diplomare sua sorella affinché non perda quell’ascensore sociale che a lei sembra essere sfuggito di mano. Ma galeotti furono l’eleganza, l’estremo pudore e la determinazione di Ratna a voler condurre liberamente la sua vita non rinunciando alle sue passioni, per creare uno stato di profondo innamoramento nel suo Sir che, forte della ricchezza e del suo cosmopolitismo, è pronto a sfidare per lei il mondo intero pur di incorniciare il suo sogno d’amore in un evento-scandalo. Sarà proprio lo spettro del “Cosa dirà le gente” a dispiegare le sue ali sagge su quel sogno d’amore cristallizzandolo in una promessa sospesa.

Aggiornato il 05 luglio 2019 alle ore 12:50