Perché si ostinano a voler attribuire il dipinto chiamato Salvator Mundi alla mano di Leonardo da Vinci, è evidente: se si potesse provare che è del Vinciano, la quotazione dell’opera raggiungerebbe vertici impressionanti. Ma non è così. E a dichiararlo non autografo del Genio di Vinci, dovrebbe essere capace anche uno dei tanti – a volte troppi – esperti d’arte con caudatari al seguito, che circolano a piede libero per questo nostro Paese.

Su, non è difficile, non è Leonardo ad aver mai posto i suoi pennelli su quella tavola. Carmen C. Bambach, l’importante e seria curatrice del Dipartimento di disegni e stampe del Metropolitan Museum of Art, ritiene infatti che la maggior parte del discusso dipinto si debba a un discepolo di Leonardo: Giovanni Antonio Boltraffio. È certo comunque che l’opera sia di scuola leonardiana, ma che sia Boltraffio, Melzi o altri non è poi così importante, se non appunto per darne un valore economico.

Eppure, di là dal consueto aspetto del Cristo vagamente incline all’androginia – e perciò tipico di Leonardo – il bel dipinto, che resta comunque un’opera di eccellente pregio e fattura, presenta alcuni elementi simbolici che la fanno indubbiamente attribuire ad altra mano. Leonardo avrebbe posto la mano destra del salvatore in atto benedicente o piuttosto avrebbe posizionato in altro modo le dita? E ancora meglio, avrebbe il Fiorentino allievo del Verrocchio mai sbagliato – com’è nel dipinto – la resa della sfera di cristallo, ovvero il Cosmo creato, tenuto nella mano sinistra? Eppure questi “errori” non minano affatto il valore del dipinto come un pregevole esempio di quella lunga e raffinata schola di pensiero che fu il Neoplatonismo di Marsilio Ficino, alla quale spesso, sotto “li versi strani”, Leonardo – e così i suoi allievi – si rifaceva.

Dunque che sia Leonardo è escluso, ciò non toglie che il Salvator Mundi, con i suoi quattrocentocinquanta milioni di dollari versati per lui, nel novembre 2017 all’asta da Christie’s a New York, e che non è stato ancora esposto in pubblico, né a quello del Louvre di Abu Dhabi, né a quello del Louvre di Parigi, potrebbe ben figurare in qualsiasi rassegna e museo di pregio, nelle sale dedicate all’arte “di maniera”, privilegiando quegli aspetti simbolici e metafisici che tante volte i nostri più quotati storici dell’arte vogliono ignorare, finendo così per essere “mulini di preghiera” che ripetono incessanti le cose già dette e troppo sentite, favorendo in tal modo i deliri paramisticheggianti alla “Codice da Vinci”, come messaggi occulti celati in un Giovanni Evangelista che sarebbe la Maddalena.

Insomma, così è il variegato – e a volte avariato – mondo degli esperti d’arte: si vuol vedere ciò che non c’è e non è mai esistito e si diviene, stolidamente ciechi davanti all’evidenza del simbolo che ci sta innanzi, eloquentemente muto.

Aggiornato il 09 giugno 2019 alle ore 11:05