Il ritorno di “Arancia Meccanica”

lunedì 29 aprile 2019


Alex DeLarge, l’antisociale capo della banda ultraviolenta dei Drughi, ritorna inatteso in questo fine ventennio del XXI secolo, con la scoperta, avvenuta in questi giorni, del seguito di Arancia Meccanica, il distopico romanzo di Anthony Burgess, datato 1962, dal quale venne poi tratto uno dei capolavori di Stanley Kubrick dallo stesso curioso nome A Clockwork Orange.

L’autore inglese, aveva approntato la traccia di una sua seconda opera, nei suoi giorni trascorsi sul lago di Bracciano, a pochi chilometri da Roma, della quale si ignorava l’esistenza. Il titolo del dattiloscritto ritrovato è A Clockwork Condition, ovvero La Condizione Meccanica, incompleto e di sole duecento cartelle. È uno di quei casi “fortuiti” di serendipità o di sincronicità junghiana o, forse, qualcuno che non fosse Burgess avrebbe detto che sia il volere imperscrutabile del Fato, ma resta che proprio in questo nostro tormentato momento e Paese, vittima ogni giorno di stupri, furti e omicidi, dalle sanguinanti brume del tempo ricompaia il meccanismo infernale “dell’arancia ad orologeria”. Un libro – e un film – che hanno creato un immaginario collettivo, rarefatto nel linguaggio narrativo del romanzo e nella fotografia raffinata di Kubrick come pochi altri simili esempi.

Il testo ora non più misterioso di Burgess, affronta dunque uno dei temi più scottanti nei quali la nostra società si ritrova immersa ogni giorno: il pericolo devastante di quella “cultura visiva” che ci impongono i media, allora soltanto con la televisione e il cinema, oggi con la rete onnipresente. L’inganno sottile di ciò che sembra e non di ciò che è. Siamo quindi intrappolati in un “mondo macchina”, in una “Matrix” ante litteram, dove l’uomo si rivela incapace di crescere come tale, come individuo, fallendo nel compito di diventare sé stesso.

Lo vediamo ogni giorno intorno a noi, circondati da una pletora di servi, illusi di essere grandi, liberi e autonomi, nella loro angosciosa schizofrenia. Un popolo di paranoici, alienati dal non essere ciò che vorrebbero a causa anche del bombardamento massmediatico. I riferimenti artistici del film che vanno dalla psichedelia e alla pop art del periodo, tra optical, echi di Mondrian, Lichtenstein e Brancusi, ci guardano di sottecchi agli angoli delle strade e, peggio, in quei cimiteri dell’arte contemporanea chiamati “musei”, catafalchi edificati sull’ego ipertrofico di maniaci curatori e più spesso sul nulla.

La Condizione Meccanica allora sembra essere l’avviso, il monito di uno scrittore che ha saputo precorrere i tempi, dato a queste generazioni di millennial o nate poco prima, annegate senza saperlo nell’ignavia arrogante di un mondo deserto di valori, dignità e bellezza. Almeno Alex dei Drughi ascoltava Beethoven, non Fedez.

 

 

 


di Dalmazio Frau