Alba nera o fasci rossi?

martedì 16 aprile 2019


Alla pigrizia mentale, che spinge a ripetere vecchie favole, non c’è limite. Quanto scrissero gli antifascisti per giustificare la loro sconfitta è diventato, nella borsa dei valori, una sorta di oro colato. Ancora oggi il richiamo alle ragioni esibite, in patria e all’estero (dove molti furono costretti a trasferirsi per sfuggire al regime di ferro e di fuoco instaurato da Mussolini) lo si ritrova nelle analisi di storici e giornalisti. Di qui la domanda: le origini del fascismo sono rappresentabili come una “Alba nera”? E il programma dei Fasci di combattimento come un rosario di destra, anzi di estrema destra? Dalle edicole e dalle librerie in questi giorni fa capolino una storiografia che un secolo dopo non stenta, anche se non collettivamente, a rimuginare luoghi comuni facendosi scudo, in non pochi casi, delle interpretazioni fiorite in un settore del campo antifascista, negli anni dell’esilio.

Mi riferisco alle interviste (di taglio e sensibilità diverse, nell’accogliere le innovazioni maturate nella storiografia) a Simona Colarizi, Fabio Fabbri, Marco Tarchi, Alessandra Tarquini nel volume Alba nera, prefazione di Sergio Romano e introduzione di Antonio Carioti, Il Corriere della Sera editore. I vincitori hanno ancora una volta scritto la storia dei vinti, ma anche questa volta non hanno ragione. Quando (il 23 marzo 1919) nascono i Fasci di combattimento, la distanza dalle posizioni della vecchia destra liberale è enorme quanto quelle del socialismo riformista (e non solo). Direi che nella riunione tenuta a Piazza San Sepolcro l’unico segno di vecchiaia è la sede messa a disposizione dall’imprenditore ebreo e massone, il triestino Cesare Goldmann, presso il circolo dell’Alleanza industriale e commerciale. La liberalità dei massoni si prolungherà nel tempo come ci ha molecolarmente documentato Gerardo Padulo (L’ingrata progenie. Grande guerra. Massoneria e origini del fascismo 1914-1923, Nuova Immagine, Siena 2018). Ma gli obiettivi che furono a cuore di questi gruppi di giovani scalmanati (dei più diversi orientamenti politici, compreso l’anarchismo) e non di rado violenti (come testimonieranno gli assalti, per bruciarle, delle sedi dell’Avanti!, la prassi dell’intimidazione come di tutte le armi di  una sanguinosa guerra fratricida) riecheggiavano aspetti della tradizione socialista. Non escluso quelle delle Leghe.

Come dimostrò l’allora direttore del Resto del Carlino, Mario Missiroli, in un bel saggio del 1919, intitolato “Satrapie”, esse anticiparono sia lo squadrismo fascista sia le tecniche comuniste di demolizione degli oppositori interni. Indissolubile dal suo passato era la biografia politica socialista di Mussolini, che aveva diretto il quotidiano. Ma apparteneva all’estremismo della sinistra del partito il disegno generale che veniva evocato e messo a punto. Con una novità, la capacità d’azione e il ripudio della cultura liberale che nei massimalisti si fermò sempre a livello cartaceo, cioè giornalistico.

I giovani fascisti avrebbero invece avuto la determinazione di portare a fondo, grazie all’inettitudine del ceto politico liberale nel fronteggiare una sfida armata. Anche da un punto di vista programmatico c’erano nel programma dei Fasci elementi diversi da quelli generici e generali dell’anticapitalismo dei massimalisti. Vale la pena di farli presenti perché prospettavano le sembianze di un’alba rossa, tutt’altro che nera come, invece, insiste a definirla il Corriere della Sera: cioè la nazionalizzazione delle industrie di armi e munizioni, la terra ai contadini, l’imposta straordinaria sul capitale, il sequestro dell’85 per cento dei sovraprofitti di guerra, il salario minimo garantito, l’anticlericalismo, l’abolizione del Senato, l’opzione antimonarchica e repubblicana.

Né si può attribuire alle violenze dello squadrismo il successo, qualche anno dopo, dei sindacati fascisti che portarono via alla Cgil la maggioranza degli iscritti. E neanche il fatto che una parte dei sindacalisti rivoluzionari (da Alceste De Ambris a Edomondo Rossoni e altri) confluì nelle loro fila, e che Sorel abbia avuto nella formazione dei fascisti, a cominciare dal loro capo, un’influenza molto sensibile. Il fascismo “sansepolcrista” proviene, senza identificarsi (anzi prendendoli di mira, a mano armata) dalla cultura e dal seno stesso delle organizzazioni della sinistra socialista.

Non ha nulla a che spartire con il conservatorismo né con il pensiero reazionario, anche quando – una volta diventato regime –, favorirà singoli e specifici interessi del capitalismo agrario e industriale (ma varerà anche forme di welfare che gli Stati Uniti ancora non hanno). Il migliore apporto storiografico, insieme (e direi meglio di) quello di Renzo De Felice, è stato scritto alle fine dell’anno scorso da Guido Melis, uno studioso che viene dalla scuola di Sabino Cassese. Si intitola La macchina imperfetta, è edito dal Mulino e sta avendo un grande successo di pubblico (e anche di premi).

Sia Cassese sia Melis hanno collocato l’esperienza del fascismo al governo nel solco di una tradizione in cui è prioritaria la ricerca della mediazione e del compromesso. Come dire: al di là della retorica sul suo carattere deciso, e anzi perentorio, Mussolini fu un leader politico pieno di dubbi, incerto e quindi tentato dalla ricerca di un equilibrio all’interno delle alternative esistenti.

I due studiosi non esitano anche a fare i nomi di chi lo avevano preceduto, e di cui ereditò la vocazione mediatoria, cioè Francesco Saverio Nitti e Giovanni Giolitti. Questo carattere di homme que cherche di Mussolini è spesso non immediata mente visibile, lo si può cogliere sotto traccia.

Per ritrovare gli antesignani occorre frugare nei mille volti, aspetti, istituzioni, miti, folclore che fecero del fascismo una vera e propria religione politica.

Dobbiamo ai molti, documentati, direi impeccabili studi di Emilio Gentile la caratterizzazione che Mussolini ha saputo imprimere al suo esercizio del potere. Nel suo recente pamphlet ricco di senso storico (Chi è fascista, Laterza editore) descrive come l’antifascismo abbia trasformato il fascismo in un’arma di polemica politica fino alla più inaudita falsificazione. Dopo Cassese e ora Melis, è difficile identificare il regime delle camicie nere nei suoi cascami e ridurlo a una costruzione di malaffare, corruzione, truffe, incompetenze, come fece l’antifascismo peggiore.

In questo senso i recenti lavori curati da Paolo Giovannini e Marco Palla (Il fascismo dalle mani sporche, Laterza) e di Mauro Canali e Clemente Volpini (Mussolini e i ladri di regime, Mondadori) servono a illuminare lati oscuri di arricchimenti, speculazioni, disonestà, illeciti e vere e proprie truffe. Ci furono, eccome. A mostrarle fu l’inchiesta sugli “arricchimenti illeciti” ordinata da Pietro Badoglio immediata mente dopo la caduta del regime, e ripresa una manciata di anni dopo da Ernesto Rossi nei Padroni del vapore, Laterza 1955. Ma identificarlo con esse è una pura e semplice forzatura, che sminuisce, e falsa, la ricerca storica.

È priva di senso la pretesa di pensare, e far pensare, che le malversazioni dei beni pubblici e la voracità degli anni 1922-1945 non siano state simili a quelle di altri governi, e soprattutto di quelli venuti dopo la guerra di liberazione. Questo antifascismo dozzinale, al di là della professionalità di molti degli studiosi citati, viene riproposta dal Corriere della Sera col titolo dato al volume curato da Carioti. In questo atto, che sembra una banalità, è arduo potere cogliere una stilla del rigore, se non proprio dell’equanimità storiografica (sempre impervia). Corrisponde solo alla volontà di omettere, nascondere o solo voler ignorare che l’Italia della partitocrazia antifascista ha scritto pagine molto, ma molto peggiori di quelle certamente infami attribuite al ventennio mussoliniano. Marco Tarchi, che dirige riviste come Diorama Letterario e Trasgressioni abituate a non fare sconti, lo sa perfettamente.

La rappresentazione delinquenziale che, grazie al titolo improprio di Alba nera, si è voluto fare del regime fascista, non riesce a incidere minimamente sulla scuola di alta professionalità, indipendenza e rigore fornita, per fare un esempio, dai grandi manager di stato che si formarono negli anni Trenta, grazie e intorno ad un personaggio come il socialriformista Alberto Beneduce. Sul personaggio e la sua “scuola” Melis scrive pagine intelligenti su cui sarebbe opportuno riflettere prima di abbandonarsi a condanne feroci dettate solo dal pregiudizio politico. Anche dopo l’uscita di scena di Beneduce, la selezione dei gruppi dirigenti nei grandi enti pubblici continuò ad avvenire per cooptazione, scelta dei migliori, a discapito, quindi, delle camicie nere prive di titoli e specializzazioni. L’antifascismo italiano è diventato uno dei più potenti Stati partitocratici del continente europeo, e non solo. Ce l’ha messa tutta, ma non è riuscito ad alterare la tradizione serietà e competenza creata dal manager socialriformista se non nell’ultimo ventennio.

Da De Gasperi in poi i governi e governicchi messi in piedi sono stati insuperabili nell’accompagnare alla scelta di dignitosi presidenti di Iri, Imi, Eni, Ina ecc. il gusto smodato dell’uso della raccomandazione, parentale o amicale, per i loro sottopancia e capi-bastoni da sistemare nei rami bassi dell’amministra zione di questi enti. Centro-destra e centro-sinistra fino alle micro-figure di Di Maio e Salvini hanno rivelato una vocazione ugualmente famelica, una specializzazione nell’assalto alla diligenza degli organismi i pubblici e di quelli autonomi per favorire persone semplicemente incompetenti e pertanto destinate a soccombere in una gara fondata sul merito.

È un argomento importante il tema della corruzione e della spoliazione dello Stato. Anche chi non ha nessun apprezzamento per le contese accademiche (quasi sempre fittizie ed evanescenti), si aspetta di vederlo sfoderare da Melis in un eventuale confronto pubblico con Marco Palla e un amministrativista di rango come Marco Cammelli. Se i Fasci di combattimento fossero stati un concentrato di pulsioni, interessi, intenzioni autoritarie, anzi dispotiche, al servizio di industriali, agrari e finanzieri, i collaboratori di Alba nera avrebbero dovuto spiegare quanto, invece, amano rumorosamente tacere: cioè come mai il gruppo dirigente del Pcd’I, compreso Togliatti e i compagni che erano in carcere o all’estero, nel 1936 firmarono (per la prima volta col loro vero nome) “l’Appello ai fratelli in camicia nera”?

Questo non fu una trovata estemporanea di qualche giornalista comunista, ma costituì la base di una   proposta di compromesso, anzi di una vera e propria intesa politica. Fu avanzata, e discussa, sull’organo teorico del partito, Stato Operaio. A ricostruire attentamente il significato e gli sviluppi di questa presa di pacificazione, anzi di alleanza, è stato nel 1996 un allievo di De Felice, oggi docente dell’università di Trieste, Pietro Neglie, Fratelli in camicia nera (edito dal Mulino).

Ad essa seguirà nel 1939, cioè circa 3 anni dopo, tra Stalin e Hitler il patto Molotov-Ribbentrop) per la spartizione dell’Europa. Togliatti la saluterà, con suo implacabile cinismo, come la prova della superiorità dei regimi nazifascisti su quelli socialdemocratici e liberali. Il programma dei Fasci di combattimento, di cui in questi giorni ricorre il centenario, fu sottoposto dai comunisti italiani ad un’analisi minuziosa.

Si tratta della prima radiografia molecolare della composizione sociale del fascismo, non solo delle origini. Ne viene recuperato il loro carattere di sinistra, addirittura rivoluzionario, come si ripete. Siamo ben oltre la cautela mostrata nell’inverno del 1935 da Togliatti nel Corso sugli avversari. Lezioni sul fascismo (più volte edito da Einaudi) nel limitarsi a riconoscere ad esso il carattere di “regime reazionario di massa”. Si può davvero su questo importante evento storico continuare ad alimentare silenzi, cambiare le carte in tavola, cioè raccontare favolette consolatrici o balle esecratorie?

Di ben altro interesse, malgrado l’omissione del giudizio dei comunisti, è la ricostruzione che dei Fasci di combatti mento, per l’editore Mondadori, ha presentato uno dei nostri maggiori (anche nelle discriminazioni subite) studiosi dell’Italia contemporanea, Mimmo Franzinelli, Fascismo anno zero. L’analisi della composizione sociale dei “diciannovisti” per molte città è un apporto innovativo e pregevole da estendere ad altre realtà.


di Salvatore Sechi