L’anticomunismo e i nostri Servizi/1

Pubblichiamo la prima parte di un breve saggio di Salvatore Sechi.

È ormai dominante l’idea che non solo Sifar, Sid, Sismi ecc., ma anche le altre organizzazioni para-militari (a cominciare da quella più nota, Stay Behind da noi chiamata Gladio) che hanno visto la luce tra la fine del fascismo e la Prima Repubblica, siano state (e in gran parte continuino ad essere) delle armi di lotta contro la democrazia invece che di contrasto al comunismo (e non solo).

L’accusa che viene mossa all’intera rete di difesa (statale e privata, segreta e pubblica, nazionale e internazionale ecc.) della repubblica è di avere operato come una struttura anti-comunista. E più precisamente: di avere in questo modo contribuito a perpetuare discriminazioni a danno di minoranze, alimentare nuove e vecchie diseguaglianze ed esclusioni fino a tentare manomissioni istituzionali e colpi di stato veri e propri. Questo è il tono e l’argomento comune alle narrazioni e alle analisi di Gianni Barbacetto, Gianni Cipriani, Giuseppe De Lutiis, Sergio Flamigni, Aldo Giannuli, Ferdinando Imposimato, Andrea Provvisionato, Nicola Tranfaglia e più cautamente Miguel Gotor e Francesco M. Biscione. Essi colgono un elemento reale, allarmante e segnalano una preoccupazione condivisibile quando rilevano non solo i collegamenti operativi, ma anche le opzioni politiche e ideologiche comuni che ci furono dopo la guerra di liberazione tra dirigenti dei nostri servizi e l’estrema destra vetero e neo-fascista (da Ordine nuovo e Avanguardia nazionale al terrorismo stragista di Freda e Ventura).

Non ci possono essere incertezze né indulgenze. La formazione di questo fronte comune va denunciato per quello che è stato, cioè un tentativo di delegittimare le istituzioni della democrazia repubblicana, ma anche di sovvertirla a mano armata o con trame di ogni tipo. Una volta affermata questa differenza, occorre dire che l’orientamento anti-comunista di cui la nostra intelligence viene accusata non è stato un errore. Aggiungo che, mio avviso, non va criminalizzata come, invece, molti di questi giornalisti e studiosi usano fare. Il problema sono i mezzi usati, cioè la non corrispondenza di essi ai principi di un regime liberal-democratico. Mi limito a indicare un modo inaccettabile di combattere i comunisti che riprendo da due dirigenti del nostro contro spionaggio. Furono molto attivi durante (e non solo) la permanenza alla testa del ministero dell’Interno di Mario Scelba, cioè i colonnelli Giuseppe Pièche e Renzo Rocca.

A fianco, anzi parallelamente, al Sid era stata costituita un’organizzazione armata dove dirigenti delle forze armate convivevano con bande di estremisti di estrema destra (non sempre o assai poco identificabili col gruppo dirigente del Msi) e qualche collegamento con lo stesso Ministero dell’Interno. Non basta dire che si trattò di un’unità d’azione imposta dalla necessità di fronteggiare i comunisti. Neanche nella lotta politica contro un avversario così numeroso e potente si poteva fare di tutta l’erba un fascio. Come presidente del Consiglio, ministro degli esteri, della Difesa e dell’Interno, Giulio Andreotti avrebbe dovuto sapere che nella lotta per sbarrare la strada al Pci i metodi proposti, e praticati, non erano uniformi, ma erano assai diversi. Uno era quello di servirsi del voto, fare leva su ogni mezzo (non necessariamente impeccabile, ma non illegale!) per democraticamente influenzare l’elettorato perché ritraesse il consenso dato ai comunisti. Un altro, assai differente, era quello consigliato dal direttore del Rei (un ufficio del Sifar). Si trattava del colonnello Renzo Rocca che sarebbe passato al servizio di Vittorio Valletta, alla Fiat, dove rimarrà vittima, per così dire, di un celebre suicidio nel suo ufficio romano. Il metodo suggerito dall’ufficiale torinese corrispondeva ad una caccia col morto dei comunisti, col ricorso a forme di esecuzione sommaria, anche individuale. Un mix di tecniche di annientamento di tipo fascista e bolscevico. Rocca, al capo Reparto D del Sifar, generale Giovanni Allavena, nel settembre 1963 per fermare l’ascesa del comunismo, raccomandava, “di usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, della intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo”.

E quanto si può leggere in una relazione al Sismi del 12 settembre 1963.

In questa impostazione manca un’idea di come in un regime liberal-democratico, quale si sforzava di essere quello dell’Italia post-bellica, si dovesse combattere un avversario come il comunismo. Le idee e i suggerimenti del suo collega Giuseppe Pièche non era diversi. Che il comunismo fosse il problema numero uno da affrontare una volta abbattuto il nazifascismo fu chiaro ai comandanti militari alleati. Basta pensare alla Operazione Sunrise. Fu discussa a lungo in Svizzera nell’inverno 1944, alla ricerca di un accordo tra gli esponenti del comando alleato e alcuni alti ufficiali dell’ormai sconfitto esercito tedesco dislocati nell’Italia settentrionale. Questa operazione fu ritardata e rimandata al dopoguerra quando venne avviato un processo che sfocerà nella creazione di una struttura (a livello dei Paesi della Nato) parallela al Sifar (e ad esso incorporato), cioè Stay Behind detta Gladio. Venne messa a punto nel 1956 sulla base di un accordo tra la Cia e il Sifar, ricevette finanziamenti e armamenti dagli Stati Uniti e poté effettuare reclutamento di personale (il 18 ottobre 1990, secondo Andreotti, ammontavano a 622 unità).

Aggiornato il 10 aprile 2019 alle ore 10:40