Il classico di Primo Levi al Ghione

mercoledì 6 marzo 2019


“Arbeit Macht Frei”. Liberi di lavorare o forzati a farlo? Seguire le regole e morire di rispetto delle regole, o violarle e sopravvivere? Rubare una minuscola porzione di pane muffo e raffermo a un moribondo è un modo valido per ritardare di qualche giorno la propria fine per consunzione? O fare come l’Ulisse: navigare, navigare senza mai pensare alla propria condizione di naufrago in preda alle tempeste? Sì, perché se qualsiasi internato di Auschwitz, Birkenau, Mauthausen, Buchenwald, etc.. avesse davvero riflettuto sul “che cosa è rimasto dell’umano in me?” vi avrebbe risposto: “Nulla”.

Quindi, per coerenza, come moltissimi fecero, a chi finiva nella macchineria dello sterminio programmato non sarebbe rimasta altra alternativa che darsi da soli la morte. Ma l’uomo completamente disperato è quello, in realtà, che spera più di qualsiasi altro in quanto non opera riflessivamente sullo stato della sua disperazione. L’istinto di sopravvivenza, cioè, valica ogni limite del ragionevole e dell’assurdo. Milioni di uomini, donne, anziani e bambini (neonati e donne incinte comprese!) viaggiavano in carri bestiame in provenienza da ogni parte d’Europa sotto occupazione nazista sperando che alla fine si sarebbero salvati tornando a casa.

Eppure, erano in non pochi a sapere che stavano per essere avviati verso i lager dell’azzeramento etnico, razziale e religioso, in cui ciascuno di loro, qualunque fosse l’età, il sesso, il rango sociale precedentemente goduto, diverrà un... “Pezzo” di carne, senza più alcun residuo di umanità. Trattato peggio di un animale d’allevamento da sopprimere più o meno immediatamente per nutrire l’ideologia folle del nuovo superuomo; o una cosa da impiegare temporaneamente come strumento al servizio della guerra armata totale alla Ragione e alla Civiltà. Al Teatro Ghione di Roma va in scena fino al 10 marzo uno sconvolgente e bellissimo “reading” corale a quattro voci (davvero bravissime!) di brani tratti dal saggio di Primo Levi “Se questo è un uomo”. Voci di tedeschi, dai toni sempre elevatissimi, per terrorizzare chi non capiva un solo vocabolo della lingua di Goethe impartendo i comandi più assurdi che dovevano essere obbediti immediatamente, pena l’esecuzione sommaria alla presenza di tutti gli altri detenuti. L’arrivo nel campo; la separazione delle famiglie, dei malati, degli inabili al lavoro inviati immediatamente nelle camere a gas. Quando l’invio a destra e a sinistra da parte della SS incaricata dello smistamento iniziale dei pezzi appena scesi dai convogli non significava soltanto prendere una direzione opposta, ma semplicemente vivere o morire.

E, quando si arrivava nelle camerate infestate da parassiti e da batteri di ogni tipo con pochissima acqua per bere e ancora più putrida e nauseante per lavarsi, con cibo pessimo e buono solo per morire di stenti e di fame, la mente si liberava in pochissimo tempo di pensiero che non fosse il cibo, il sonno, il freddo, le percosse, i piedi piagati che si infettavano e non ti permettevano più di camminare verso il nulla seguendo tracciati sulla neve gelata che conducevano per i più fortunati alla aree di produzione a sostegno dell’economia bellica nazista. La visione ripetuta, ossessiva totalizzante era l’enorme pignatta del rancio: l’intelligenza serviva solo a capire quale fosse il migliore posto nella fila di miserabili con i costati esposti in modo che il mestolo versasse più sostanza nella tua lurida gamella. Orinarsi addosso perché i tempi del raduno mattutino e dell’appello erano così stretti da non lasciarti nessuna pausa per le tue esigenze corporali di animale. Avere la grandissima fortuna di essere tra i pochissimi sopravvissuti solo perché eri un bravo chimico e il tuo “pezzo” aveva un minimo valore venale. Mentre in chiusura, dopo l’arrivo dei russi, scorrono sullo schermo gigante le montagne di corpi degli “Häftling” (internati) che non ce l’hanno fatta.


di Maurizio Bonanni