Il Fu Mattia Pascal in scena al Ghione

venerdì 1 marzo 2019


Iniziare dalla coda. Forse l’unico modo per non ferirsi con le punte amare di un racconto forte e complesso, come “Il Fu Mattia Pascal” di Pirandello, è proprio quello di tentare una riduzione teatrale “leggera” e moderna prendendo spunto solo dall’ultima parte, come quella che va in scena fino al 3 marzo al Teatro Ghione di Roma, per la regia e l’adattamento di Claudio Boccaccini. La struttura della rappresentazione fa leva su di un personaggio fuori scena, collocato al margine sinistro del proscenio, che dà le battute al protagonista. Il sipario chiuso funge da cortina e sfondo all’apparizione di un tenebroso Mattia Pascal, reso anonimo da un cappello e da un cappotto da spia sovietica, mentre il suo suggeritore/contraddittore è seduto su di una poltroncina fin troppo angusta per la sua taglia, accerchiato da una piccola trincea di libri, la materia prima del bibliotecario Mattia Pascal (Felice Della Corte) che racconta nel prologo la propria tragedia familiare al suo singolare interlocutore. La morte della figlia piccola. La rovina economica. Le tirannie di moglie e suocera. La fuga con un piccolo prestito concesso da un cugino per i funerali. La clamorosa vincita al casinò dove aveva puntato l’intera cifra. Il tentativo di ritorno a casa, con la scoperta sulla via del ritorno di essere stato creduto morto e riconosciuto come tale da sua moglie.

 Allora, il lampo, la rivelazione: accettare la finta morte, per ricominciare daccapo, ovunque sia, purché in un luogo sconosciuto diverso da quello di prima. Trovarsi un nome, Adriano Meis, combinando i discorsi di perfetti sconosciuti che viaggiano nello stesso scompartimento ferroviario. Infine, arrivare da un affittacamere qualunque i cui proprietari sono un anziano padre, Anselmo Paleari, appassionato bibliografo e sua figlia Adriana nubile e molto religiosa. Tra gli altri ospiti, il genero vedovo di Anselmo, Terenzio Papiano, avventuriero e sciupafemmine; la pensionante medianica Silvia Caporale, già amante tradita e delusa del losco Terenzio. La parete principale dello sfondo mostra un’immensa distesa di libri grandi e piccoli, che tracimano sul palcoscenico, distribuendosi su file ordinate lungo un asse orizzontale che serve da passerella. Da lì, si costruisce il ragionamento prettamente pirandelliano sul male e sul bene; sull’essere e sul non-essere; sull’anonimato felice ma insopportabile e sull’identità propria perfettamente infelice. Cambiare nome. Cambiare Paese e città. Cambiare identità e rinascere più volte dalle proprie ceneri. Cambiare tutto fuori di se stessi nell’impossibilità di cambiare il proprio “interior”.

Quanti sono i nostri “Doppi”? Tanti quante sono le facce del nostro “unicum”. Possiamo cambiarci i connotati, correggendo lo strabismo che ci rende troppo riconoscibili. Possiamo innamorarci e avere il terrore di non poter coronare quel sogno con una donna onesta, perché non abbiamo più un’identità ufficiale. Ovvero, perché il nostro “Pupo” pubblico non è identificabile, cosicché non possiamo nemmeno denunciare colui che ci ha derubati. Né chiedere il rilascio di un certificato di matrimonio. Né domandare giustizia per il torto subito. Nulla di nulla, perché esiste una sola identità: quella genetica. A nulla serve il disperato tentativo di indossare sembianze altrui, scambiandoci con un cadavere al quale abbiamo sottratto la giusta sepoltura e il pianto compassionevole dei congiunti. Si può mutare personalità per davvero? No, perché le teste non sono intercambiabili: anzi, sono tutti pezzi unici, non riproducibili. La natura non fa catene di montaggio, grazie alla straordinaria, incredibile potenza combinatoria dei geni. E socialmente? Si può costruire un Pupo perfettamente finto che non assomigli affatto a quello con cui siamo nati e diventati adulti? Ma no che non si può: sarebbe solo una delle tante facce del Pupo precedente!


di Maurizio Bonanni