Una fine sospesa. Un racconto di fantasmi e di chi non riesce a liberarsi da una vita stanca che nessun bacio o abbraccio potrà mai ravvivare. La storia, in fondo, di una Nera Signora vestita a festa e per nulla affaticata dalle innumerevoli pieghe della sua pelle che ha visto scorrere gli anni a milioni, come ci mostra quella sua figura scheletrica e senza vene riprodotta in un’infinità di incisioni. Lei che sta sulla terra su di una gamba sola, come le gru, scrutando senza requie la mota in cui si bagnano fino alle tempie le esistenze umane, che un giorno si confonderanno con i vermi di cui si nutre. Nel film “I villeggianti”, diretto e interpretato da Valeria Bruni Tedeschi (Anna), con Valeria Golino (Elena, la sorella di Anna), Riccardo Scamarcio (Luca, il marito di Anna) e Pierre Arditi (Jean, marito di Elena e imprenditore fallito), gli amori dell’età avanzata sono tutti boteriani, soprattutto al femminile, consumati clandestinamente o quasi con uomini più atletici ma non più giovani, mentre i figli, anzi l’unica meravigliosa figlia bellissima e adolescente, Oumy, viene dalla lontana Africa, richiamata da tanto lontano per lenire le colpe dei ventri infertili di due sorelle mature, l’una contro l’altra armate e incapaci persino di dividersi l’amore per l’adorato fratello, morto poco più che cinquantenne.

E che dire quando la casa, la madre e la zia, così come la piccola Oumy (bravissima!) sono proprio quelle della vita reale di una regista che vuole riflettersi nel suo personalissimo Lago dei Cigni, rappresentato da uno straordinario tratto di mare della Costa Azzurra? Quali faide, conflitti interiori e esteriori restano insidiosamente nascosti quando si è lontani, ma dilagano senza freni dentro un lussuoso perimetro in cui la ricchezza non più attuale fa rima con infelicità? In questo caso, la famiglia matriarcale è fin troppo densa di tradimenti, odi, abbandoni per morte o per viltà, come accade quando scompare ancora giovane un fratello di cui sono edipicamente innamorate e dipendenti le sorelle Anna ed Elena; o quando si abbandona come ladri di notte, nel caso di Luca, un corpo matrimoniale ormai troppo simile a un letto disfatto, con una moglie che non prova sentimenti quando si dà per morto un suo carissimo amico di famiglia, ma che per quel marito belloccio e superficiale è capace di versare torrenti di lacrime e di parlare decine di volte al giorno con una segreteria telefonica, che non dà risposte alla terribile angoscia e all’irrefrenabile dolore di chi chiama.

Il film è una sorta di “American Sniper” in cui il mirino scorre nascosto e lontano all’interno di un paesaggio di macerie, per colpire a morte altre anime armate che si muovono nell’ombra dei fondali, ora proiettandosi sui resti delle pareti crollate, ora sui viottoli impervi carichi di arbusti spinosi e sporgenti. Qui i treni non portano volti sorridenti ma maschere che trasudano indifferenza al dolore altrui. Una servitù che ha esattamente gli stessi problemi dei suoi padroni, fin troppo disattenti e cinici preoccupati solo degli animali selvatici che mettono scompiglio nel loro piccolo eden. Solo Oumy rischiara con il suo bellissimo volto scuro le passioni macerate degli adulti e le loro frasi sempre troppo sbagliate nei toni e nei contenuti ulceranti. La cultura, attraverso la musica e il bel canto, scorre leggera e mai invadente, quasi un respiro sospeso sopra un mare di affanni, per dire a chi giudica e ascolta: “No, noi non siamo solo questo. Non siamo soltanto bruma nebbiosa in uno stagno di coccodrilli”. Un quadro un po’ surreale, in cui si incrociano come fuochi fatui gli amori maturi tra ospiti e residenti. Ovunque manca l’Ancora e i pensieri sono lucciole nella notte. Fantasmi che si oppongono ai vivi, che conversano con gli sconosciuti e si ritrovano nella nebbia. Gli umani, insomma con il loro fardello pesante di sempre, carico di ombre e scarso di luci.

Aggiornato il 27 febbraio 2019 alle ore 12:48