Chi sta “Sulla soglia dell’eternità”? Indubbiamente Van Gogh ha un affaccio di là. Come recita il titolo del film in inglese tradotto fedelmente in italiano, per la regia di Julian Schnabel e la magistrale interpretazione di Willem Dafoe, in uscita nelle sale dal 3 gennaio 2019, “At Eternity’s Gate” dimostra come alcuni, rarissimi artisti siano un ponte chiaroveggente tra cielo e terra. Ma, forse, molto di più. Riescono a dare colore e segno ai più struggenti movimenti dell’anima, siano essi di perdizione nei fumi dell’assenzio, del tabacco rancido masticato nelle taverne di terz’ordine; nei momenti di requie tra le gambe molto vissute di una prostituta; o nelle pratiche sanguinolente dell’abbandono e del bianco sporco delle camice di forza, ristretti in istituti manicomiali dove regnano sovrani l’ignoranza medicale e i trattamenti inumani e degradanti degli assistenti sanitari. Sadismo, masochismo, obnubilamento della mente che vede il modello fuori standard della pastorella e desidera fissarlo a qualunque costo sulla tela, fosse anche costringendola con la forza in una posa di pace che, come tutte le cose poco comprese, si gira in paura, terrore del diverso per terminare con l’accusa di pazzia per chi le avrebbe, invece, regalato l’immortalità nel colore e nel segno.

Perché, come dice Vincent, il fiore che viene ritratto ha vita breve. Quello che viene dipinto, al contrario, ne trattiene l’anima e l’essenza per l’eternità. E poiché Dio fa anche le cose più sublimi di cui nessuno crede di aver bisogno nell’epoca in cui vive, allora è chiaro che al Suo interprete mortale siano riservati il patimento, la crocifissione, l’ostracismo così come decretati dai contemporanei per punire chi come Vincent affida la mano a Lui per rapirne il soffio di vita, andando oltre le Sue creazioni, scendendo nel più profondo del mistero, in base all’antinomia perdizione-redenzione, scavalcando ogni limite sensoriale conosciuto per provare l’incommensurabile piacere e la visione paradisiaca del trascendente, per cercare poi di trasmetterlo alle generazioni che verranno, come una visione celeste, un immenso Dono di Dio, per l’appunto. Nelle mani di Willem Dafoe, il carattere di Vincent, il suo intenso e breve vissuto, le espressioni scarnificate, sofferenti e disperate del volto assomigliano come cloni alle sculture di Giacometti: opere plastiche di creta sempre in divenire, da ritoccare giorno dopo giorno, in mezzo alle notti insonni o alle tempeste d’amore.

Atti creativi che non hanno né inizio né fine. Opere mai veramente completabili, compibili e del tutto insoddisfacenti, dove manca sempre un tocco, una pennellata. Perché diciamolo: l’Eternità è sempre così mutevole dato il tempo infinito che ha disposizione! Quindi, come si fa a capire la disperazione di Vincent, quel suo testardo, insopprimibile desiderio di voler afferrare con il solo aiuto dell’arte la creazione di Dio attraverso le forze della natura che ci tengono in balia dei capricci di Caos, ci respingono sempre e non voglio mai essere possedute? Fare come lui: aggirarsi e agitarsi da folle, consumando innumerevoli paia di scarpe (di cui ci arriva... “l’autoritratto”!), in giro per i campi, le radure i boschi. Seguirne gli innumerevoli, instancabili passi con immagini e riprese che fanno l’onda all’erba calpestata, alla terra arida dei girasoli appassiti. Trasferendo all’obbiettivo la sintesi delle sue nevrosi dinamiche attraverso cadenze ravvicinate, persecutorie, ritmate con il movimento degli zaini portadipinti e dei lacci degli scarponi. Bellissime e struggenti le immagini con Theo, un amore fraterno sconfinato senza ragione e tutto sentimento. Come l’amicizia morbosa con Gauguin. Il loro genio innovatore, pesce pilota di una balena spiaggiata dell’impressionismo ormai esausto e di un manierismo classicista senza futuro. Praticamente, un film perfetto.

 

Aggiornato il 15 dicembre 2018 alle ore 10:21