“Leni”, applausi al Brancaccino

La dea Bellezza? In pratica una “non vedente”, accecata dalla sua stessa passione. Qualcosa, insomma, che racchiude in sé l’antinomia Polifemo-Ulisse in un’unica entità che conduce al suo interno una eterna lotta fratricida. Lo spettacolo “Leni”, in scena al Teatro Brancaccino di Roma fino al 9 dicembre, interpretato da un’ispiratissima e magistrale Valentina Acca, su testi di Irene Alison e con la regia di Marcello Cotugno, vuole essere una trasposizione teatrale dell’autobiografia di una pioniera della regia al femminile, Helene Bertha Amalie Riefenstahl, detta “Leni”, amica personale di Hitler e la più famosa regista del regime nazista. A lei è stata mossa l’accusa di crimini contro l’umanità, subito dopo la caduta del regime nazista, ma Leni come il suo amico Speer ne è uscita sempre indenne. Sulla scena un arredo spartano: un piccolo scrittoio attorno al quale volti anonimi interrogano la protagonista per estorcerle una confessione sui suoi presunti crimini come amante del Fuhrer; uno schermo su cui passano in rassegna molte immagini dei suoi film di propaganda o di avventura e, soprattutto, il suo capolavoro “Olympia” sulle Olimpiadi di Monaco del 1936 e sulla vittoria di Jesse Owens; infine un gigantesco megafono simbolo per eccellenza della propaganda goebbelsiana.

Attraverso di lei veniamo a conoscenza di dettagli fondamentali che riguardano la personalità di Hitler, la cui sua unica vera amante era “La Germania” (che, diciamolo, ne avrebbe francamente fatto a meno!), e quella passeggiata a due sulla spiaggia, prima dei trionfi elettorali di Berlino con l’espressione intensa e spiritata di Hitler, volto nel volto, coronata dalla capacità felina di lui di afferrare il genio di cineasta di lei, incoronandola fin da allora come la sua unica musa di donna regista del regime. Leni ne rimarrà spaventata e ammaliata, innamorandosi del suo idolo di quell’amore platonico che i grandi artisti riservano persino ai loro drammatici e sanguinari mecenati. Potenti, espressivi, carichi di dettagli (più intuiti nei gesti al di là delle parole) sono i due anni di lavoro intensi passati a esaminare, scartare e montare molte centinaia di km di pellicola per il film Olympia, affinché le espressioni marziali di Hitler assumessero tutta la rilevanza necessaria. Ma, ciò che davvero impressiona, è il suo genio spregiudicato, l’uso modernissimo della macchina da presa.

Così, Leni impone alle centinaia di suoi collaboratori di scavare buche intorno alla pista d’atletica per inquadrare dal basso i velocisti, innamorandosi carnalmente poi del vincitore olimpico di Decathlon, lui che aveva osato lasciare il podio per baciarle in pubblico il seno, dedicandogli folli notti d’amore, terminate con finte riprese notturne della sua vittoria e una partenza molto triste dall’aeroporto.

Poi, l’America nel 1938, dove Leni sbarca per portare il film Olympia. Il boicottaggio di Hollywood nei suoi confronti come regista nazista, a seguito dei drammatici fatti della Kristallnacht. La cortesia squisita di Walt Disney, l’unico a riceverla e a scusarsi con lei per non poter assistere alla proiezione di Olympia, pena il boicottaggio dei suoi cartoni da parte del mainstream dell’epoca. Leni è colei che danzando subisce traumi che le imporranno di smettere per sempre con il ballo, ma l’arte che hai dentro, il talento autentico non segue i capricci di una giuntura articolare. Così Valentina Acca inscena passi di danza di taglio nettamente gestaltico e ispirato alle opere degli scenografi del Bauhaus accompagnati da vocalità potenti, che trasmettono al di là della Quarta Parete i cigolii dell’anima di colei che si sente ingiustamente perseguitata. Perché, poi, agli artisti veri interessa solo l’Arte di cui sono innamorati e posseduti per tutta la loro vita. La politica, quando si interseca con la loro vita creativa, è solo un treno che a volte fa le fermate giuste.

Aggiornato il 07 dicembre 2018 alle ore 13:39