Quando l’Ombra si fa regista. Così come in “Taxi Teheran”, anche nella sua ultima opera cinematografica “Tre Volti“ (in uscita nelle sale italiane dal 29 novembre) il regista Jafar Panahi si fa ombra, ora incudine, ora protettore ancillare e passivo di Behnaz Jafari la sua bella e forte primadonna, attrice famosa di soap opera iraniane (lei e Jafar interpretano se stessi nel film), la cui presenza ha virtù taumaturgiche per dissolvere vere tragedie familiari. La scelta in tal senso è ideologica e non ha nulla di casuale, scendendo come un antidoto nelle viscere avvelenate della società khomeinista iraniana, che priva la femminilità della propria sostanza umana. Il film risalta Tre Volti di donne di altrettante generazioni: la prima, coetanea del regista, rimane perennemente senza volto emarginata e messa al bando dalla sua piccola comunità montana turco iraniana, per essersi mostrata in pubblico come “intrattenitrice” (sul tipo di una ballerina del ventre, lasciva e impudica), ovvero come “attrice” in opere cinematografiche in cui è stata diretta tra l’altro proprio dallo stesso Jafar. Ed è lui a scoprire l’incorruttibile solitudine di lei relegata in un minuscola e misera casupola di campagna ai margini dell’abitato, regalandoci della sua prima donna soltanto un’unica rapida inquadratura che la vede dipingere di schiena un paesaggio naturale alla Van Gogh.

Ed è lei, con ogni probabilità, l’ispiratrice di un finto video suicida che catapulta Behnaz nel medioevo, fuori dal suo mondo dorato di celluloide facendole credere al suicidio di Marziyeh Rezaei (che pure interpreta se stessa), una giovane e bella aspirante attrice della terza generazione, perseguitata dalla sua famiglia ossessionata dallo scandalo. E la finta misura ha l’effetto sperato: sconvolta Behnaz (donna della seconda generazione, caratterizzata da un grado di evoluzione superiore a quello della “intrattenitrice” pittrice) abbandona il set, con grandissima disperazione della sua regista, e si fa condurre proprio da Jafar in un avventuroso viaggio su sentieri montuosi e impervi. E da lì fluisce un’immensa, nostalgica ricerca della bellezza interiore e ormai morente per quegli stereotipi di donne e uomini anziani, che si ritrovano consustanziati nelle loro millenarie tradizioni dove solidarietà, pettegolezzo, superstizione, storia e memoria dei costumi da tramandare a ogni costo alle nuove generazioni, si intrecciano fino a sanguinare come un toro ferito.

Sconvolgente e carica di compassione è la bellissima scena del possente animale che giace inginocchiato e lamentoso sul sentiero montagnoso (in cui passa un’auto per volta, secondo un codice sonoro da cui si evince l’urgenza di precedenza), in attesa di un fantomatico veterinario introvabile in quel posto sperduto che ha il medico condotto soltanto a decine di km di distanza! Dentro un dialogo dell’assurdo, immaginifico e penetrante come un quadro surrealista, il povero fattore spiega a Jafar il suo dramma per il mancato guadagno della montatura di numerose giovenche che saranno il giorno dopo portate al piccolo mercato locale. Così come un vecchio spiega a Behnaz i misteriosi poteri del prepuzio essiccato del suo figlio maschio. E che le donne, esse sole possano capirsi tra di loro passando sopra alla tirannia dei maschi è il vero, profondo messaggio di Jafar, uomo recluso e perseguitato in patria, al quale non è stato mai concesso un visto provvisorio per ritirare i vari premi e riconoscimenti in giro per il mondo. Behnaz avvalendosi della melanconica passività di Jafar si lascia avvolgere, con l’intensa voluttà di un vampiro, dalle piccole attenzioni quotidiane e dai racconti degli abitanti del posto, più dolci del miele sapiente delle api.

Aggiornato il 21 novembre 2018 alle ore 12:06