“Chi è A.M. (Aldo Moro)”. Così la moglie Eleonora (Noretta il suo nomignolo familiare) ha tracciato di suo pugno il titolo del fascicolo dei documenti da lei raccolti sulla vita del marito. E proprio a quelle carte, come a moltissime altre contenute nell’Archivio Flamigni, fa riferimento in buona sostanza Marco Damilano nel suo libro sul Moro pubblico e privato dal titolo: “Un atomo di verità” (Edizioni Feltrinelli 2018). Partendo però da un immaginario infantile: quella mattina del sequestro, il 16 marzo 1978, come sempre, un bus accompagnava l’autore (all’epoca bambino di dieci anni e residente nei pressi di via Mario Fani) alla scuola Montessori del quartiere. Qualche tempo prima il padre giornalista lo aveva portato a conoscere Moro a debita distanza, mentre pregava raccolto nella chiesa in cui si recava ogni mattina ad ascoltare la messa. La ricostruzione dei fatti tratti dalla cronaca e dai referti di polizia giudiziaria rimane essenziale, non specialistica e prettamente giornalistica, con un respiro del racconto leggero e mai saccente. All’interno ci sono le menzogne dei brigatisti (una tra tutte: come mai non dissero nulla del dossier Moro murato a via Monte Nevoso?), le vigliaccherie e le colpe di Democrazia cristiana e Partito comunista italiano contrari alla “Trattativa”; i mille tradimenti intellettuali, politici e umani che lo statista prigioniero non volle nascondere al mondo, all’opinione pubblica italiana e, soprattutto, al suo Partito-Stato.

La verità sempre sbriciolata, insomma, di cui ancora dopo quaranta anni manca un quadro chiaro, essenziale e nitido. Forse, quella giusta l’avevano avuta Leonardo Sciascia e Mino Pecorelli (esistono sue foto con Aldo Moro nei quindicimila scatti conservati nell’Archivio Flamigni!), che scrisse di Yalta e della logica che avrebbe seppellito con Moro le “convergenze parallele”. La sua strategia era quella di cooptare gradualmente il Pci nell’area delle responsabilità di governo in vista di una futura, possibile alternanza, una volta che il mondo diviso allora in blocchi avesse esaurito la sua funzione storica. Fosse vissuto solo dieci anni in più, Moro avrebbe avuto pienamente ragione nella sua chiaroveggenza politica! La sua fine, quindi, era frutto di un’unanimità d’intenti inconfessabile: da un lato Mosca aveva il terrore di un eurocomunismo “democratico” all’interno di un sano meccanismo di alternanza; dall’altro Washington e Kissinger vedevano come una minaccia concreta e mortale, nel timore del più classico “Cavallo di Troia”, l’accesso dei comunisti al potere e, quindi, ai segreti dell’Alleanza Atlantica a dominanza assoluta statunitense. Si intuiscono molti burattini dietro le Brigate rosse, dai servizi segreti dell’Est alle più oscure manovre della destra cattolica e postfascista (con una netta impronta piduista), pronta ad allearsi con il diavolo pur di non consentire ad Andreotti (che il giorno del sequestro avrebbe dovuto presentare il suo Governo alle Camere!) di realizzare quel progetto moroteo.

Ma le virtù del libro di Damilano stanno ben altrove, ovvero nelle migliaia di carte, scatti ripresi un po’ in tutto il mondo in cui appare e giganteggia la figura di un Moro espressione del massimo potere democristiano e della capacità assoluta di ragionamento politico, che non sarà mai più uguagliata in seguito. Molto interessante è il parallelo tra Bettino Craxi e Aldo Moro i cui destini sono accumunati da una sapiente e appassionata rivisitazione delle loro vicende politiche e personali. Sciascia gioca il suo ruolo nella vicenda del sequestro e della morte dello statista, con le sue preveggenze e le citazioni criptiche. Molto commoventi sono infine le citazioni letterali dei passaggi (dotati di un lirismo intenso del tutto insospettabile) in cui Moro si rivolge per iscritto negli ultimi giorni di vita a Noretta, al nipotino Luca e ai quattro figli.

Aggiornato il 09 agosto 2018 alle ore 16:36