Brecht al “Vittoria”

“Un uomo è un uomo”. Semplice a dirsi, soprattutto se vi chiamate Bertolt Brecht e siete l’autore del testo teatrale omonimo, oggi presentato coraggiosamente fino al 27 aprile al Teatro Vittoria, nell’ambito della rassegna curata da Viviana Toniolo “Salviamo i talenti - Premio Attilio Corsini”, di cui è risultata vincitrice la compagnia di bravi e giovani attori protagonisti di questo complesso spettacolo brechtiano. Uno scenario brullo, dove carrucole e gavitelli di scena messi a nudo fanno bella mostra di sé per esaltare il contenuto annullando il contenitore. Ideologicamente, il bersaglio è quello di sempre: l’imperialismo in tutte le sue forme e coniugazioni, come la conquista inglese dell’India, che ha come strumento privilegiato la guerra e il militarismo. Quest’ultimo è il vicolo cieco, il sonno della ragione che genera un vortice negativo della conoscenza: per il soldato-massa (centomila uomini, in questo caso) contano solo gli ordini dei superiori che per essere assimilati si avvalgono del terrorismo punitivo, conformando così le menti dei sottoposti al non-pensiero, forma di nichilismo assoluto per cui si dà attuazione senza obiezioni di sorta a qualsiasi comando, anche il più spregevole.

Come “Uno vale Uno”, così un uomo vale l’altro perché la divisa, identica per tutti, è la vergine di ferro che imprigiona chiunque all’interno del suo impenetrabile, spesso rivestimento d’acciaio dell’anomia, in cui alla fine anche i graduati e gli ufficiali perdono nome e personalità diventando interscambiabili, come il “libretto” militare privo di fotografia che può passare di mano con la complicità di pochi commilitoni. Ragione per cui tre dei quattro militari della pattuglia del plotone degli artificieri possono scambiare un loro compagno minacciato di fucilazione con un povero contadino ignorante, costringendolo a mettersi letteralmente nei panni del ricercato. Impeccabile nelle sue sequenze sceniche è l’induzione al cinismo, all’abbandono degli affetti più sacri e sicuri, come una moglie, per le solite gratifiche da quattro soldi, birra e sigari concessi dalla paga di soldato di truppa. L’inganno e il ricatto faranno di un uomo ingenuo ed incapace a dire di no, il povero Galy Gay facchino e scaricatore del porto di Kilkoa, un giovane figlio del demonio, Jip, che non avrà il minimo scrupolo ad avvalersi dell’onnipotenza della divisa che indossa.

Perché, se dai a un miserabile il potere di vita e di morte questo più facilmente si avvarrà del secondo, come farebbe il terribile sergente di ferro Bloody Five se  potesse provare che i quattro soldati di cui sospetta, Uria, Polly, Jesse e Jip sono realmente responsabili di aver violato un tempio induista per rubare le offerte. Aspetto questo del furto punibile con la morte degli esecutori perché responsabile di aver creato disonore all’esercito inglese, essendo un gesto politicamente scorretto, mentre nulla si dice nel codice militare sulle condizioni ignobili in cui vengono lasciate le popolazioni locali, sopraffatte dalla soldataglia, vessate e depredate dei loro beni. Ma è Bloody five il feroce, un vigliacco che uccide a sangue freddo cinque civili incatenati, a ricevere un colpo mortale alla sua immagine di duro, quando sconvolto da una sensualità animalesca nei giorni di pioggia si comporterà come un lupo in calore alla ricerca della femmina. E, lì nel campo, ce n’è una a buon mercato, la vedova Begbick, gestrice di un  famigerato vagone-birreria, che farà di lui un povero, innocuo straccione sessuale. E sempre lei, figura di virago, si donerà con entusiasmo alla teoria del complotto per la muta di pelle dal mite Galy Gay al cinico Jip sotto mentite spoglie. Un grande Brecht, senza dubbio.

(*) Per info, prenotazioni e biglietti: Teatro Vittoria

Aggiornato il 18 maggio 2018 alle ore 19:07