Sachalin, l’isola dell’ingiustizia

venerdì 11 maggio 2018


Di recente è apparsa un’opera di Anton Cechov, intitolata “L’Isola di Sachalin” (Adelphi), in cui coesistono in maniera mirabile il reportage di viaggio, il romanzo d’avventura e l’analisi antropologica sulla condizione dei deportati in una colonia penale su un’isola della Siberia al tempo del potere assoluto degli Zar.

Il viaggio dello scrittore ha inizio nel 1890, in primavera. Il paesaggio che lo scrittore incontra, attraversando la strada da Tjumen e Tonsk, monotono e silenzioso, induce Cechov a pensare che in Siberia l’uomo è impegnato a lottare sempre contro la natura ostile, sicché non ha tempo da dedicare alle arti. Di fronte al lago Irtys, Cechov ha un dialogo memorabile con un contadino siberiano, il cui nome è Petr Petrovic, per il quale nella sua terra il popolo è ignorante e inetto, visto che gli portano quello di cui ha bisogno dalla Russia. Mentre in Russia il popolo è consapevole del valore della vita, in Siberia, per Petrovic, il popolo non conosce lo scopo per il quale vive né sa quale valore attribuire alla giustizia, visto che regna incontrastato l’arbitrio.

Cechov nello scrivere il suo reportage sull’isola penale di Sachalin vuole smascherare l’idea che sia un luogo adatto a perseguire la correzione di quanti hanno commesso reati. Secondo lo scrittore, non è vero che la pena capitale si applica in casi eccezionali, poiché le pesanti condanne che l’hanno sostituita, come l’esilio nelle colonie penali, conservano la sua caratteristica principale: cioè di valere per l’eternità. Infatti i lavori forzati si accompagnano all’esilio perpetuo ed è per questo motivo che le colonie penali sono luoghi in cui viene degradata e umiliata la dignità umana dei deportati.

La natura meravigliosa si presenta allo sguardo incantato dello scrittore a partire dal fiume Enisej, più bello del Volga. Dopo il fiume Enisej, inizia la famosa taiga, formata da fitte e intricate foreste di pini, larici, abeti e betulle. Sul piroscafo Bajkal lo scrittore attraversa il canale di Tartaria e, durante la traversata, pensa che Puskin e Gogol sono scrittori incomprensibili per gli abitanti della Siberia. Sachalin è situata nel mare di Ochotsk. Durante il ricevimento nella casa del comandante dell’isola, Cechov ascolta le parole pronunciate dal governatore generale barone A. N. Korf, per il quale la condizione degli esiliati è migliore di chi sconta la pena in Russia o in Europa.

In realtà lo scrittore, nel corso dei suoi viaggi, sia nella parte settentrionale dell’isola sia in quella meridionale, coglie con grande realismo le storture e le contraddizioni presenti nella colonia penale. In primo luogo, riflettendo sui motivi del male e delle azioni riprovevoli commesse dai deportati sull’isola, scopre che, essendo proibita la vendita degli alcolici, esiste il contrabbando di queste bevande. Così come è diffusa la prostituzione delle donne libere, che hanno seguito sull’isola i mariti e i genitori. Anche il prestito ad usura è una attività illecita praticata e tollerata nella colonia penale. Visitando un carcere sull’isola, Cechov medita sulla vita ingabbiata, nichilista nel vero senso della parola, perché al reo è negato il diritto alla proprietà, alla solitudine, al benessere, al sonno tranquillo. Spesso i detenuti vivono immersi nella misera e nella sporcizia, indossando scarpe scalcagnate. La servitù dei detenuti, che evoca quella della gleba, suscita indignazione nell’animo dello scrittore.

I funzionari dell’isola penale hanno i detenuti al proprio servizio, senza retribuirli. In altre luoghi dell’isola, la finalità rieducativa della pena viene sacrificata a considerazioni economiche, sicché i deportati sono costretti a lavorare nelle miniere e a tagliare gli alberi nelle foreste. Per tale motivo, per lo scrittore viene vanificato il fine ultimo della colonia penale, per il quale fondamentale è rendere possibile la rieducazione del condannato. Per Cechov il deportato, per quanto possa essere corrotto e ingiusto, ama più di ogni altra cosa la giustizia, e se non la trova negli uomini che stanno al di sopra di lui, i responsabili dell’amministrazione della colonia penale, sprofonda in uno stato di incattivita sfiducia.

Nel libro è memorabile la descrizione del popolo dei Giljaki che non appartengono né al ceppo mongolico né a quello Tunguso, ma a qualche tribù sconosciuta. Per la mitezza del loro carattere, alieno a qualsiasi forma di violenza, i Giljaki sono riusciti facilmente a convivere con i deportati. Un libro che contiene sia la descrizione di un luogo di sofferenza ed espiazione al tempo della Russia degli Zar, sia una meditazione sul sistema penale, sulla giustizia umana e sulle origini misteriose del male.


di Giuseppe Talarico