Con la ripubblicazione del volume Critica delle costituzioni economiche di Ernesto Rossi (Castelvecchi), Gianmarco Pondranno Altavilla restituisce al lettore di oggi un’opera di fondamentale importanza nella riflessione economica e politica dell’antifascista fiorentino (l’ultima edizione è quella del 1965 per le Edizioni di Comunità).

Il testo di Rossi si articola in due ampie parti, Critica del capitalismo e Critica del sindacalismo, che nascono in un particolare momento della sua vita (l’opera è stata composta durante l’internamento a Regina Coeli tra il 1934 e il ’38 e rivista poi a Ventotene), parti tenute insieme da un sottile filo rosso ben messo in luce dal curatore perché “nei progetti rossiani la Critica avrebbe dovuto costituire la summa del suo pensiero politico-economico, dotata dei crismi di sistematicità e completezza che fanno di un volume il volume di un determinato autore” (p. 7). Rossi, infatti, progettava di unire a questi due saggi critici un terzo blocco, quello sulla Critica del comunismo, ai quali avrebbe fatto seguire le sue idee propositive di programmazione economica, pubblicate poi in momenti e contesti politici diversi (ci si riferisce ai testi Abolire la miseria e La riforma agraria). Su questi due saggi che ora è possibile rileggere Rossi è ritornato più volte e le ragioni che rendono cruciale l’opera all’interno della sua produzione sono ben messe a fuoco dal curatore nella sua introduzione al volume (Alle origini del liberalismo rossiano: la Critica delle costituzioni economiche) che al contempo risulta essere un chiaro saggio orientativo sull’evoluzione del pensiero economico di Rossi. In queste pagine Pondrano Altavilla delinea il profilo di Rossi economista, partendo anche dai riferimenti culturali che lo hanno formato o condizionato (in particolare Salvemini, Einaudi, De Viti de Marco, Pareto, Wicksteed e la Scuola Austriaca) per fornire al lettore utili chiavi interpretative su questi scritti di Rossi (sempre a corredo del volume si segnala anche l’ottima sintesi delle vicende editoriali del libro a cura di Andrea Becherucci).

La Critica, infatti, rappresenta in maniera definitiva il liberismo di Rossi indirizzato al consolidamento dei regimi democratici contro ogni forma di società senza regole o peggio ancora autoritaria perché, come ben appunta il curatore riprendendo lo stile di Rossi sempre segnato da un riconoscibile salveminismo, “Dove c’è monopolio o un oligopolio, dove il figlio meritevole di un operaio non riesce - solo per sfortuna di nascita - a far concorrenza al figlio debosciato del borghese, dove il potere privato o quello pubblico, o tutti e due insieme in una ‘Santa alleanza della staticità’, impediscono il sorgere di nuove forze e nuove esperienze, bisogna con praticità adoperare gli strumenti più efficaci ed efficienti per rimettere in moto l’ingranaggio” (p. 12), così coniugando la crescita del benessere del singolo a quello di tutta la società.

Più nello specifico, la Critica del Capitalismo è una lucida analisi del legame tra libera concorrenza e benessere collettivo, che per Rossi non costituisce un passaggio così diretto, ma egli è convinto che a tale traguardo si possa giungere attraverso radicali riforme delle strutture giuridiche della società, affinché si possano anche adeguare le forme di intervento dello Stato nella vita sociale (e quindi anche produttiva) di un Paese moderno.

Tuttavia lo Stato, alla fine, come può favorire la giustizia sociale, un obiettivo nevralgico, se non l’obiettivo, dell’idea di democrazia di Rossi? Evitando sprechi, inefficienze e arginando, attraverso la cultura e l’educazione, la corruzione e la criminalità. Partite, queste, nel nostro Paese sempre aperte alle quali Rossi allora saldava la seconda parte della sua indagine, La critica del sindacalismo. Criticando il mito sindacalista, sul quale Ernesto ragionava con i suoi compagni di cella - e qui è d’obbligo il richiamo del fondamentale volume di Vittorio Foa La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi di inizio Novecento (il libro è però del 1985) che per certi versi sembra rivedere e poi completare il ragionamento di Rossi - l’autore demolisce questo mito il quale affermava che la proprietà degli strumenti della produzione doveva appartenere alle diverse categorie di lavoratori che li metteva in opera nel processo produttivo.

Prendendo le distanze da questo modello, così come nella abbozzata Critica del Comunismo - che si può finalmente leggere in appendice a questa interessante edizione - egli si esprime in termini negativi verso la pianificazione economica perché fra le varie cose soffoca l’iniziativa e i bisogni del singolo, Rossi poi tocca quindi alcuni nodi nevralgici e mai risolti della nostra democrazia e del funzionamento dello Stato in genere (sul quale i goffi tentativi di “riforma” posti in essere anche dopo la fine della “prima repubblica” hanno miseramente fallito).

Sulla necessità di tornare oggi a una rilettura del pensiero economico di Rossi, dopo la crisi di inizio secolo e il potere anche politico sempre più imperante della finanza, infine valga un breve estratto dalle pagine finali dell’antifascista: “Quando parliamo di regime capitalistico […] pensiamo ad un regime in cui alla tutela della proprietà privata degli strumenti di produzione corrisponda una politica tendente a eliminare continuamente gli ostacoli alla libera concorrenza e a soddisfare sempre meglio l’esigenza da tutti sentita di una maggiore giustizia sociale. Entro lo schema generale del capitalismo sono possibili le più radicali riforme per abolire i privilegi esistenti e per dare alle libertà politiche e alle libertà individuali un contenuto sempre più concreto per tutte le classi sociali, anche per le meno abbienti, in modo che tutte siano interessate a difenderle quali strumenti necessari della loro elevazione materiale e morale” (p. 189).

(*) Fondazione Rossi-Salvemini

Aggiornato il 15 marzo 2018 alle ore 11:25