“Martyr”, un po’ kamikaze e un po’ martire

In Libano o in Palestina quando un giovane è senza arte né parte e non sente i consigli del padre o della madre ma invece frequenta amicizie poco raccomandabili quel che gli può accadere, invece che una banale tossicodipendenza, è di diventare un “Martyr”, come nell’omonimo film libanese di Mazen Khaled, visto recentemente durante la XXIII edizione del Medfilm Festival a Roma.

La nozione di martire in questo film si estende: e entra nell’immaginario di un gruppo di vitelloni della borghesia libanese. Che sentendosi inutili nella vita e per paura di finire sulla strada finiscono per auto-martoriarsi con pensieri e sfide assurde. Hassan è il più sensibile e consapevole. Per questo finisce per fare una grande stupidata, peraltro frequente nella gioventù libanese e anche siriana. Cioè dare prove di virilità mediante tuffi pericolosi nell’Eufrate da alti dirupi. O nella fattispecie nel mare libanese, buttandosi dalle terrazze prospicienti. Hassan si tuffa e muore dopo un lungo colloquio con il suo migliore amico in cui gli comunicava quanto si sentiva inutile nella vita. Profetizzando che mai lui avrebbe avuto una ragazza.

Per consolarsi della sua stupida morte e nella previsione di dover affrontare la madre e il padre riportandolo cadavere a casa, i compagni di peregrinazioni esistenziali lo presentano come un “martire”. Il sottile messaggio del regista potrebbe essere quello che in fondo gli “shaheed” che si fanno esplodere sono tutti degli idioti irrealizzati come Hassan. Fatto sta che il regista dopo la morte del protagonista impiega gli ultimi venti minuti di pellicola a descriverne il lavacro.

Hassan adesso è un martire e come tale viene lavato e preparato alla sepoltura. La madre che aveva rinunciato a dirgli cosa fare, il padre che non aveva dialogo con lui e gli amici che non lo capivano, adesso si consoleranno così.

Aggiornato il 16 novembre 2017 alle ore 21:46